THE VIEW "Bread and circuses"
(2011 )
Ad alcuni dei lettori che, con simpatica ironia e non senza ragione, umoristicamente sottolineano nell’arco del presente sito una mia disparità di giudizi, sovente irrispettosa dei classici a discapito di legioni di immeritevoli fanfaroni, ricordo in tutta umiltà e con cuore leggero di non potere nè volere vestire – nei miei solipsismi – i panni del critico musicale. Se in generale il critico professionale orienta i propri pareri a seconda della effettiva pregnanza degli artisti che recensisce, allo scopo dichiarato di sottolinearne e constatarne la centralità – o meno – rispetto ad un genere, una scena, o addirittura un momento storico, il semplice ascoltatore (come il sottoscritto) finisce altresì per privilegiare il proprio gusto personale secondo un approccio squisitamente soggettivo: questo cantante sarà anche un mostro sacro, ma il suo disco mi piace o no? “Pink moon” di Nick Drake vale un teorico “9”, determinato dai molteplici elementi che ne hanno sancito la postuma grandezza come autore ed interprete, o solo un “6”, perchè – parliamoci chiaro – è noioso, scarno e approssimativo? Bene: se in un’altra vita mi toccasse il mestiere di critico musicale, mi affretterei a liquidare questo album dei giovani scozzesi The View inumandolo sotto poche righe freddamente disinteressate ed assegnando – già con generosità - un “4” insindacabile. Ma in questa vita sono solo un ascoltatore, e sta di fatto che “Bread and circuses” staziona stabilmente sulla mia auto da quando un mesetto fa, per nemmeno 5 euro, fu pescato pressochè a caso in un cestone di cd in offerta. The View sono una band di ragazzotti scozzesi dall’aspetto abbastanza rassicurante, solo leggermente sboccati nei testi e politicamente scorretti nel parlare giovalisticamente di sesso ed altre amenità; giunti al terzo album, rilasciano con irriverente sfacciataggine un chiassoso pasticcio che impasta svergognato plagi ruffiani e atmosfere caotiche, in un bailamme che coretti, doppie/triple voci, tastieroni e chitarre riverberate saturano all’inverosimile. E’ un calderone di scopiazzature, rimandi, stratificazioni di suono fuori misura, ritornelli irresistibili, intuizioni fasulle, ammiccamenti furbetti e progressioni che rubano a piene mani da quarant’anni di brit-pop, masticato, digerito, risputato, non necessariamente rielaborato. Tra echi invadenti di Smiths e Housemartins fanno capolino i conterranei Big Country (l’assolo di chitarra della contagiosa “Tragic magic” sembra – pari pari, anche nelle sonorità – quello di “Where the rose is sown”), passaggi da Oasis, una squisita imitazione dei Cure col basso pulsante à la Simon Gallup del singolo “Sunday”, ma anche accenni di Muse e di Pulp, Clash e Kinks (il ritornello di “Underneath the lights” è pazzesco), Blondie e Rolling Stones, tra ballate strappalacrime (“Best lasts forever”, mielosa fino alla stucchevolezza) e garage-rock (la stilettata dell’iniziale “Grace”), glam patinato (“Girl”) e disco-music (“Friend”): come da buona tradizione anglosassone, non si è mai in grado di stabilire con certezza in quale direzione la canzone si svilupperà, e ciò regala all’insieme un tocco di imprevedibilità che giova ancor di più a brani già di per sè accattivanti. La mente Kyle Falconer gigioneggia impastando riff, trucchi, contrappunti, armonie, intrecci: tutta roba già sentita (sul ritornello sfacciato di “Walls” ho provato a cantare – con successo – “Fame, I’m gonna live forever...”), ma nelle prime quattro tracce il baldo giovane raggiunge livelli mirabilmente irresistibili, azzeccando altrettanti groove e realizzando piccoli gioielli beat fuori moda che occhieggiano agli anni sessanta senza mascherarsi più di tanto. Anche nei momenti più incolori, qualche invenzione estemporanea fa capolino a ravvivare gli episodi meno ispirati, dando la vivida impressione di una band dotata di un potenziale notevolissimo, se non altro per quanto attiene alla capacità di scrittura delle canzoni: disco pacchiano, composto con materiale riciclato e con molta faccia tosta, ma a suo modo piacevolissimo. (Manuel Maverna)