THE SERVANT "The Servant"
(2004 )
Ai londinesi Servant del vocalist e frontman Dan Black, lungi dall’avere mai rappresentato un act di una qualche seminale rilevanza nel panorama dance (elettropop? Synth-pop? Indie-dance?) mondiale, va comunque ascritto l’indubbio merito di avere realizzato con invidiabile onestà professionale e classe da scaltri mestieranti alcune irresistibili hit (qui se ne trovano almeno tre) e di aver cercato non senza una certa maestria di dar vita ad un ibrido – solo in apparenza scontato, in realtà piuttosto inconsueto – di musica da ballo e indie-pop. La vera forza della band, oltre ad una buona capacità di scrittura dei brani, sempre piuttosto accattivanti e vivacizzati sia da arrangiamenti intriganti che da una ritmica dagli accenti insistiti, sta nello stile vocale di Dan Black (che in Italia ben ricordiamo per essere stato la voce part-time della fortunata meteora Planet Funk), che riesce mirabilmente ad interpretare brani da dancefloor con sincera attitudine punk, contribuendo in misura decisiva a rendere sorprendentemente aggressive e catchy anche tracce altrimenti destinate ad ascolti distratti. E’ il caso delle scudisciate di “Devil” e “Jesus says” – a modo loro le più dure del lotto – ma anche negli episodi più melodici e ricchi di intrecci tastieristici il sopraffino Dan conferisce a canzoni ben strutturate una precisa direzione ed una impronta estremamente personale, virando ora su toni nasali, ora piegando l’ugola a chorus stentorei, ora placandosi su inattese ballate radiofoniche (non sempre riuscite), ora di nuovo impennandosi in lovesong oblique immancabilmente agitate da qualche azzeccato trucchetto in sottofondo. Tra gli altri, la band indovina tre pezzi che sarebbero di per sè sufficienti a giustificare il disco: la cadenza insinuante dell’opener “Cells” (impiegata nella colonna sonora di “Transporter 2” ed in versione stumentale anche in “Sin city”, film con Bruce Willis), la melodia ampia della toccante “Liquefy” e quella ancora più suadente di “Orchestra”, ma anche il resto non è da meno (la ballata pop à la Cure di “I can walk in your mind” cambia registro e privilegia le chitarre, “Beautiful thing” riecheggia il Bowie più leggero con un ritornello lieve e dolcissimo). Nonostante il calo di ispirazione che abbatte l’album in coda, sbilanciandolo con qualche pezzo insignificante e stiracchiato – che pasticcia con una psichedelia malriuscita, non nelle corde del gruppo -, il lavoro rimane comunque interessante e ben confezionato, riuscendo a non perdere quasi mai il proprio gradevole appeal, seppure senza impressionare nè entusiasmare eccessivamente. (Manuel Maverna)