THE PSYCHEDELIC FURS "The Psychedelic Furs"
(1980 )
Il sestetto londinese degli Psychedelic Furs esordì nel 1980 con questo album eponimo, mirabile tentativo di traghettare la scena musicale britannica dal punk alla new-wave. Trainati dal timbro drammaticamente arrochito di Richard Butler (cantante che non ho mai nascosto di idolatrare), i brani di questo debutto, acerbo ma già significativo, mostrano tutta la loro ingenua immaturità, nel connubio tra stilemi propri del punk meno oltranzista e primi fuochi della new-wave. Fedele a modelli apertamente dichiarati (John Lydon, Bob Dylan, David Bowie), Butler trafigge con un canto frontale e falsamente sguaiato – in realtà intriso di un’ intima eleganza ed in ciò differente da Lydon – un tappeto sonoro ancora in bilico quanto ad incertezza formale: i clangori metallici e le progressioni caotiche che ingorgano e rendono claustrofobico (e confusionario) il sound rischiano di prendere il sopravvento sui primi cenni di quel triste romanticismo che costituirà il marchio di fabbrica ed il tratto distintivo dei Furs a venire, soffocando l’agitata vocalità di Butler con un mixaggio penalizzante ed una scrittura non sempre originale nè interessante. L’album contiene tuttavia episodi mirabili, alcuni dei quali vanno annoverati a buon titolo tra i classici della band: l’iniziale “India” che si sviluppa improvvisa ed oscura dopo una intro esitante spinta da un flangering massiccio (ricorda molto i primi Sisters of Mercy), la cadenza rallentata e lisergica di “Sister Europe” ed il chorus beffardo di “Imitation of Christ” introducono la band su uno scenario a tinte fosche, una discesa emotiva che rasenta talvolta (il passo abrasivo di “Fall”) gli inferi, di rado concedendo tregua al dilagante senso di oppressione. Mancano ancora gli intrecci melodici che renderanno grande la band nei lavori successivi, quando la furia e l’urgenza del debutto si stempereranno in uno spleen esistenzialista accostabile per intensità forse ai soli Cure di Robert Smith; sarà quella la reale dimensione di una band inadatta a suonare musica punk (ci provano con scarsa convinzione e poca attitudine nei due-accordi-due di “We love you” e nella farraginosa “Blacks/radio” di stampo velvetiano) ed impegnata qui più che altro ad intasare il suono citando Bowie, quasi replicando l’incedere monocorde di “Heroes” (“Wedding song”), o a proporre in modo tanto personale quanto spiazzante una ballata in stile dylaniano, priva di ritornello, sommersa dal riverbero delle chitarre e contrappuntata dal sax disturbante di Kilburn (“Flowers”). Disco storicamente rilevante, artisticamente troppo imberbe per essere considerato davvero fondamentale: i veri Psychedelic Furs nasceranno sul successivo “Talk talk talk”, pietra miliare di un non-genere difficile da circoscrivere e da etichettare. (Manuel Maverna)