recensioni dischi
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SONGS:OHIA  "Magnolia electric co."
   (2003 )

Questo è un disco triste. O meglio: è un disco di canzoni folk-rock recitate da un uomo triste. In questo ultimo episodio inciso sotto il moniker di Songs:Ohia, il signor Jason Molina si esprime in un linguaggio rurale e diretto che lo accosta per contenuti, stile canoro ed indole disfattista a Will Oldham (versante Palace Brothers più che Bonnie Prince Billy), mentre le musiche, specie quando inclini ad un rock ruvido e primitivo, rimandano a certi squadrati impianti noisy à la Neil Young. Sotto questo aspetto, gli otto intensi brani che compongono “Magnolia Electric co.” svelano una struttura piuttosto semplice, con testi venati di un sordo malessere, spesso del tutto personale, annodati attorno ad un 4/4 essenziale e privo di variazioni, nei quali il pathos – sempre vivido e pulsante – è affidato interamente al bislacco canto sgraziato di Molina. La metrica dei versi è spesso libera, quasi Jason recitasse uno scritto su un giro-base in un registro lamentoso, la cui drammaticità è acuita dal mixaggio frontale della voce e dalle sonorità sporche della chitarra. La forma prediletta è quella della ballata, riflessiva o nevrotica che sia: alla prima corrente vanno ascritte la confessione depressa di “Just be simple” ed il desolato, toccante rallentamento melodrammatico inscenato negli otto minuti della conclusiva “Hold on Magnolia”, mentre nel secondo filone rientrano la profezia funerea di “The farewell transmission”, sette roboanti e tesissimi minuti di un anomalo talkin’ blues apocalittico, e la cavalcata elettrica di “John Henry split my heart”. Ma la ricetta dell’album offre anche altri ingredienti, dal pigro country classico di “The old black hen” al mesto mid-tempo di “I’ve been riding with the ghost” (che potrebbe appartenere al repertorio di John Cougar), fino al crescendo dilatato di “Almost was good enough (once)”, recitato sofferente espanso da un effetto tremolo ed impreziosito da un coro spiritual. Molina raggiunge l’apice del suo dolente lirismo nella continua esitazione emotiva à la Greg Dulli di “Peoria lunchbox blues”, litania arrancante offerta al falsetto vibrante di una scintillante Scout Niblett, la cui interpretazione conduce il brano ad un climax parossistico in bilico tra suspence ed agonia. Disco intenso e fremente, amaro e malinconico, austero ed opprimente, reso più fruibile da un certo disimpegno negli arrangiamenti e da una genuina semplicità nella costruzione dei brani. (Manuel Maverna)