recensioni dischi
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NOIR DESIR  "666.667 club"
   (1996 )

Originari di Bordeaux, i Noir Desir possono senza dubbio alcuno essere considerati come la più affermata, preminente e significativa rock-band francese di sempre: nessuna altra formazione d’oltralpe – ad eccezione forse degli Indochine e dei Louise Attaque, la cui notorietà è rimasta tuttavia più limitata alle aree francofone – è riuscita nel corso degli ultimi decenni ad imporsi all’attenzione dell’Europa intera edificando architetture sonore tanto riconoscibili quanto intriganti. Questo è rock, va chiarito subito; rock duro e puro, rock fatto di elettricità, ritmiche serrate, brani incalzanti ed una voce veemente, spesso mixata dritta in faccia all’ascoltatore, investito e spazzato via da una tormenta di chitarre che sorreggono il canto parlato – di rado intona melodie – di Bertrand Cantat. Sono i Noir Desir dello splendore, quelli militanti (nei testi di Cantat c’è molta invettiva socio-politica), quelli che conoscono nel 1996 l’acme della grandeur pre “Des visages de figures”, l’apogeo al quale, complice la tragica notte di Vilnius, si fermeranno nel 2010 senza tuttavia cadere mai nella polvere dell’oblio. La magia dei quattro prende forma in questo ricco e coeso album in dodici tracce mirabili per compattezza ed intensità, canzoni a volte violentate dalle mitragliate della chitarra, a volte cullate da atmosfere più riflessive ma sempre spasmodicamente tese grazie a qualche sapiente artifizio, non ultimo il consueto ricorso alla lingua inglese in un paio di riusciti episodi (“Prayer for a wanker”, “Lazy”). La meticcia babele strumentale della title-track funge da preludio alla bordata elettrica di “Fin de siecle”, sviluppata attorno al latrato roco di Cantat e ad una ritmica stordente che martella incessante la declamazione furiosa del frontman, capace di comunicare ira e sdegno, ferocia e sfiducia, rassegnazione e melanconia come un consumato attore che muti maschera ad ogni atto della pièce inscenata. Scorrono fluide ma sferzanti la triste, amara ballata di “Un jour en France”, il controtempo zoppicante di “A ton étoile”, la flemmatica dolcezza di “Ernestine” e la velocizzazione forsennata di “Comme elle vient”, ma anche l’attacco a testa bassa di “Les persiennes” e l’irresistibile disco-music truccata di “L’homme pressé”, fino alla chiusa vibrante di “Septembre, en attendant”, tre minuti sospesi su un abisso nei quali Cantat recita un sofferente manifesto esistenzialista sulle note allucinate della chitarra. Album godibile (ma non troppo), impegnato (ma non troppo), costruito attorno a canzoni belle (ma non troppo), preludio alla maturità assoluta che segnerà irreversibilmente, nel bene e nel male, il luminoso, indiscusso capolavoro del 2001, trasformandolo in atto definitivo, al contempo epitaffio e testamento. (Manuel Maverna)