recensioni dischi
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LES NEGRESSES VERTES  "Mlah"
   (1988 )

Per una brevissima, intensa stagione, Les Negresses Vertes hanno rappresentato in Francia l’ala più scanzonata ed integralista di quel movimento folk tanto apprezzato oltralpe, e che può annoverare tra i suoi esponenti di spicco ensamble come Debout sur le Zinc, Ogres de Barback, La Rue Ketanou, Les Hurlements D’Leo (più rock), Les Blerots de R.A.V.E.L. (più avanguardisti) e soprattutto i canadesi Les Cowboys Fringants, tutte voci capaci di dare lustro ad un genere che miscela aria festosa e armonie melanconiche, divertissement e tristesse fusi in una musicalità sostenuta ed accattivante in grado di coniugare la tradizione popolare e la chansonne francese più classica. Rispetto agli altri nomi citati, che costituiscono solo alcuni esempi, Les Negresses Vertes si segnalarono per un approccio sfrontato che sfruttava al massimo le potenzialità espresse dal loro leader carismatico, Noel Rota, in arte Helno, figura talentuosa di sognatore fatalista, animo gentile che la vita accompagnò alla porta sotto le mentite spoglie di un’overdose di eroina a soli ventinove anni, quando era all’apice del successo. “Mlah” è l’album col quale debuttarono nel 1989, lavoro che contiene alcuni dei loro brani più celebri (“Zobi la mouche” e “Voila l’été”) e che mostra senza mezzi termini i canoni della loro arte, nel bene e nel male: se da un lato la giocosa euforia che traspare dal mood zingaresco della band può risultare piacevolmente contagiosa, dall’altro gli otto ragazzacci suonano come una comitiva di simpatici strafattoni che, tra una bottiglia, un joint e l’eco dei bonghi trascorrono una serata insolita al parco di Trenno proferendo corbellerie in una nuvola di fumo dolciastro. Il suono è incalzante, sebbene scomposto, disordinato, con gli strumenti che sembrano talvolta vagare scollati tra loro, quasi a maneggiarli fossero dei dilettanti allo sbaraglio; il ritmo è sovente dettato dalle percussioni – quasi mai da una batteria tradizionale – e sorretto dai fiati, cosicchè l’insieme assume un andamento piuttosto indefinito, spesso di tenore arabeggiante, un calderone pacatamente caotico che rende difficoltoso mettere a fuoco la canzone. Sopra tutto si staglia sghembo il canto sbavato di Helno, mezzo roco, mezzo impastato, gutturale e complessivamente fastidioso, uno stile sgraziato che tende ad appiattire composizioni già di per sè non irresistibili, fustigate dalla generale impressione di incuria che danno di sè. Il teatrino funzionerebbe anche, ma i pezzi non decollano mai, schiacciati a terra da arrangiamenti sciatti e da quello sconsiderato blaterare tipico di Helno; è un disco sprecato, che annovera al suo interno episodi intriganti e ben scritti (“Il”, le già citate “Zobi la mouche” e “Voila l’été”, la goliardata di “La pere Magloire”), ma che si perde nei meandri di scipite pagliacciate sulla falsariga dei peggiori Mano Negra (“La danse des negresses vertes”) o che incespica su slabbrati baccanali gitani capaci di rovinare anche belle canzoni (“C’est pas la mer a boire”, “Orane”). Le intuizioni sono buone, ma ciò che rimane è un pasticcio nemmeno tanto gradevole, che lascia la sensazione di ascoltare un nastro registrato in cantina da un affiatato gruppo di ragazzotti un po’ brilli. (Manuel Maverna)