recensioni dischi
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MODEST MOUSE  "The moon & antarctica"
   (2000 )

Quella dei Modest Mouse, band statunitense dell’estremo north-west che rappresenta forse uno dei pochi buchi neri nella storia del rock contemporaneo, è sempre stata musica ostica, a tratti quasi fastidiosa, una interpretazione estremamente personale e cerebrale dell’indie-rock, riletto attraverso le lenti distorte del loro leader e fondatore Isaac Brock. In questo osannato terzo lavoro cesellano musica complessa, priva di un centro emotivo o strutturale, tradotta in canzoni che talvolta implodono, talaltra deflagrano solo in parte senza approdare a nulla, una musica imperniata su giri dissonanti e frasi contorte che fungono da tappeto sonoro per le divagazioni testuali di Brock. Ogni accenno di crescendo viene soffocato e ricacciato in gola, mentre da ogni idea di melodia che muore nasce un nuovo tema, a sua volta non portante nè importante nell’economia del brano: non c’è mai un ritornello degno di nota, mai un’impostazione circolare o assennata, e forse in ciò risiede parte della genialità (o sedicente tale) ascritta a questo disco dai molti critici illuminati che non hanno mancato negli anni di incensarlo, ergendolo a livelli di creatività siderali talora difficili da cogliere. Di fatto, le canzoni del trio non riescono ad essere catchy, ma qui sta forse il trucco astratto di Brock: non sono interessanti perchè non vogliono esserlo, come a simulare e supportare uno straniante e straziante senso di smarrimento incolore. Disegnati da una voce cantilenante, sgraziata, esile e lontana, spesso filtrata, sdoppiata o sostenuta da cori leggerissimi, sfilano sulla ribalta personaggi invisibili narrati da testi che lavorano – e bene – sulle nevrosi e sulla morte, in una rivisitazione metafisica riveduta e corretta di un cosmo agonizzante. Quello di Brock è uno stile di scrittura che rifugge dalla normalità, non perchè egli sia un poser, ma perchè non riesce a scrivere diversamente da così: “3rd planet” apre l’album su un arpeggio inconcludente e vacuo che non giunge al punto, ma che anzi sorregge l’intera canzone con la voce che, distorta ad arte, narra di un fantomatico aldilà in una metrica che non sfigurerebbe in un rap di Eminem, come avviene anche per le impennate - più concitate che rabbiose o violente - di “Dark center of the universe”, escalation di parossistica irritazione che Brock raggiunge al culmine del proprio delirante solipsismo, un’invettiva sprecata, un comizio nel deserto. Ci sono poi aree sospese ed interrotte che richiamano Eels e Jason Molina (si potrebbe cantare “The farewell transmission” sopra “Perfect disguise”, che è tuttavia posteriore), mentre il giro latin-folk à la Beck di “Gravity rides everything” - canzone semplicemente nè bella nè piacevole nel suo vago procedere - suona monocorde, una minimale variazione laid-back su un paio di accordi maggiori non sviluppati con la chitarra appositamente scordata ed un effetto tremolo inessenziale a fungere da contrappunto. La fiera delle stranezze offre la porno-disco-music anni ’70 di “Tiny cities made of ashes”, un dub dissonante che lambisce l’atonalità, cantato in un registro maniacale à la Black Francis che ricorda l’andatura ondivaga di “Trucker’s atlas” sull’album precedente, e che finisce per collassare in trenta secondi di una nenia folk avulsa dal tema di base, come spesso accadeva sul disco di esordio. La stessa infida deriva travolge la nervosa e sbilenca aria à la Pavement di “I came as a rat”, che naufraga senza senso in una landa desolata citando in coda addirittura il riff nascosto di “Never let me down again” dei Depeche Mode, la ballata mutevole di “Paper thin walls” (che parte come una canzonetta dei Cure per finire nell’ennesimo cul de sac tra rumori di fondo, scordature e campanacci), la falsa accelerazione – continuamente abortita – di “A different city” o la quiete fasulla di “Lives” che richiama la depressa ineleganza dei Neutral Milk Hotel. In cotanta farraginosa bruma, gli episodi migliori coincidono coi tre lunghi rallentamenti elettrici capaci di abbozzare temi lievemente più lineari, mai comunque assimilabili senza soverchio sforzo cervellotico: la cadenza ossessiva di “The cold part”, col suo folle racconto minimale ed un violino toccante, il misticismo visionario sublimato nei nove minuti di “The stars are projectors”, e la confusa ricercatezza di “Life like weeds” (che parte con un funky e finisce tra distorsioni assortite su un non-chorus piatto e ripetitivo). Nel bene e nel male, ogni traccia è imprevedibile nella sua contorta staticità: non si può sapere cosa accadrà nel prossimo minuto della canzone, se non che ciò che si ascolterà non sarà comunque così tanto interessante, almeno musicalmente. Uno dei dischi più difficili, più irritanti e più ''non-belli'' che abbia mai ascoltato. (Manuel Maverna)