recensioni dischi
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MARY GAUTHIER  "Between daylight and dark"
   (2007 )

Artista oramai affermata, sebbene nota prevalentemente nell’ambito country-folk, l’allora quarantacinquenne Mary Gauthier pubblicò il suo quinto album, il secondo consecutivo – dopo il fortunato “Mercy now” - per la storica etichetta Lost Highway, label di punta in quello stesso genere musicale tanto apprezzato oltreoceano. “Between daylight and dark”, prodotto da Joe Henry, è un solido album che si muove con sicurezza lungo direttrici ben note: storie dure, e quasi sempre autobiografiche, di vita vissuta vengono narrate in prima persona col sincero trasporto e lo sguardo disincantato di chi è passato indenne dalle forche caudine di un’esistenza sempre in bilico tra luce ed ombra, come suggerito esplicitamente dal titolo. Musicalmente Mary si rintana nel confortevole e protettivo rifugio del country-folk, limitando le sortite in territori limitrofi al blues tagliente ed efferato dell’iniziale “Snakebit” col suo chiassoso refrain da New Orleans, una slide-guitar assassina ed una plumbea aria omicida nelle liriche, ed alla struggente, pigra road-ballad di “Can’t find the way” arricchita da un pianoforte malinconico e da un delizioso arrangiamento della batteria. La rimanente parte del lavoro è sviluppata attorno ad un country lento e cadenzato di stampo classico (splendide sia la title-track che il mid-tempo trattenuto di “I ain’t leaving”, ad un passo da John Denver) o ricamata sullo scheletro di ballate intime nelle quali la narrazione riveste sempre e comunque un ruolo di primissimo piano, sia che racconti di cuori infranti (la dolce “Before you leave”, la bucolica “Please” con una strofa dal passo loureediano, la toccante “Same road”, notturna e fumosa con un chorus sopra le righe) sia che celebri vite bruciate di drop-out (“Last of the hobo kings”, uno dei suoi classici, o la conclusiva, triste prison-song di “Thanksgiving”), sia che indulga una volta di più all’autocelebrazione, serena ma amara, del faticoso e travagliato affrancamento dai molti fantasmi del passato (la ballata dylaniana di “Soft place to land”). Disco ricco ed intimo, impregnato di una singolare, feroce confidenzialità e di un sottile male di vivere, espressione sia di un dolore divenuto quasi trascendente, sia della sua accettazione a viso aperto e ad occhi spalancati. Con un mezzo sorriso. (Manuel Maverna)