MANO NEGRA "Puta's fever"
(1989 )
Simile ad un fuoco che all’inizio scalda ed incendia ed alla fine si riduce ad un refolo di fumo e ad un pugno di braci crepitanti, anche taluni episodi della breve, fortunata, luminosa parabola artistica dei gitani Mano Negra di Manu Chao sembrano cedere alla mannaia impietosa del tempo inclemente, la cui inesorabile ineluttabilità spegne anche le fiamme più vivide ed ardenti. Accade così che anche un disco esplosivo 25 anni fa come “Puta’s fever” muti oggigiorno il proprio sound in un pasticcio slegato e confusionario di goliardate inessenziali, finendo per somigliare ad una caotica, chiassosa, irriverente fucina di idee sì interessanti, ma impastate con il frettoloso brio dell’urgenza, un disco pensato per le esibizioni live e certo inadatto a dispiegare in una ristretta dimensione domestica tutta l’incendiaria potenza compressa in queste diciotto schegge di follia. Dotato di canzoni meno riuscite rispetto al folgorante debutto di “Patchanka”, “Puta’s fever” mostra soprattutto una minore coesione ed una ridotta organicità dell’insieme, che poggia su un bailamme di brani brevissimi ed inconclusi (ben sei tracce delle diciotto presenti non arrivano ai due minuti, solo tre superano i tre), musica da circo ad un passo dal cabaret, ben poca cosa se confrontata al successivo “King of Bongo” e perfino al vituperato – ma tutt’altro che disprezzabile – “Casa Babylon” di fine carriera. A dispetto di ciò, “Puta’s fever” inizia comunque bene, offrendo alcuni dei cavalli di battaglia della band, dalla tirata assassina di “Rock'n'roll band” alla celebre cadenza tribale di “King Kong five”, dalla sassata punk di “Soledad” al saliscendi di “Sidi h' bibi” (cantata in arabo): peccato che inizi poi repentinamente a franare in una voragine di superflua autoreferenzialità fatta di intermezzi che altro non sono se non sketch da vaudeville, una discutibile mascherata da avanspettacolo solo di rado interrotta da sporadici esempi di brani compiuti, peraltro di eccellente qualità (“Peligro”, “Guayaquil City”). Irrita – e non poco - lo spreco di melodie accattivanti (“El sur”, “La rancon du success”, “Pas assez de toi”, solo per citarne alcune) gettate alle ortiche nel nome del caos, frammenti inutili come la divertente pagliacciata conclusiva di “Patchuko hop”, non-canzone che invita a far festa, ma che non serve ad altro se non a quello. (Manuel Maverna)