recensioni dischi
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MANO NEGRA  "King of bongo"
   (1991 )

Nutrito, variopinto ed eterogeneo collettivo di sbandati dall’attitudine picaresca, capaci di regalare ai molti estimatori entusiasmanti ed incendiarie performance live, gli oramai da tempo sciolti Mano Negra di Manu Chao hanno attraversato e segnato un breve ma luminoso periodo a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Combo gitano e multietnico per eccellenza, nei quattro album rilasciati nell’arco di sei intensissimi anni di carriera – trascorsi in larga parte in tour intorno al mondo - sono stati in grado di proporre una vorticosa miscela di generi e sottogeneri, rendendo questo bailamme festaiolo un autentico marchio di fabbrica. “King of Bongo” è il terzo lavoro della band, dopo i pastiche caciaroni dell’irresistibile debutto “Patchanka” (il neologismo col quale essi stessi definirono la loro musica) e del successivo “Puta’s fever”, altrettanto godibile sebbene più frammentario; è l’album a partire dal quale i fans della prima ora – ed i critici insieme a loro – iniziarono ad avvertire ed a constatare un cambiamento quantomeno formale nello stile del gruppo, reo di avere optato largamente per la lingua inglese, preferita per l’occasione al francese ed allo spagnolo, e di avere spinto più sul versante rock che su quello da folk circense che ne aveva fin lì decretato la fortuna e la specificità. Ciò non toglie che “King of Bongo” resti comunque un disco irresistibile, frenetico, zeppo di idee e di ritornelloni anthemici, caleidoscopio di schegge di follia e guizzi imprevedibili, passerella traballante sulla quale sfila tutta l’irriverente, istantanea genialità di Manu Chao e dei suoi bizzarri accoliti. La ritmica è sempre serrata, burlona fino al parossismo nell’insistito divagare tra rozzi punkettoni sparati a folle velocità (“Letter to the censors”, “Mad man’s dead”) ed un malinconico valzer in francese (“Le bruit du frigo”), tra echi di country up-tempo (“Don’t want you no more”) e suggestioni latineggianti (“El jako”), indulgendo sì eccessivamente nei consueti episodi nonsense (“It’s my heart”, “Furious fiesta”, la baraonda slabbrata e ubriaca della conclusiva, suggestiva “Paris la nuit”), ma regalando perle del calibro di “Bring the fire” col suo reggae elettrico, della title track col suo percussivo crescendo tribale, del dolce singalong ciclico di “Out of time man”, e soprattutto dell’irresistibile beat da avanspettacolo di “Madame Oscar”. Album a suo modo ricchissimo ed affascinante, votato alla ostentata ricerca di una forma espressiva basata sul groove, un calderone nel quale anche canzoni non necessariamente memorabili acquistano un appeal scintillante grazie alla verve profusa dai suoi instancabili esecutori, un po’ menestrelli, un po’ eminenze grigie travestite da giullari. (Manuel Maverna)