BARK PSYCHOSIS "Hex"
(1994 )
I Bark Psychosis, quartetto inglese dell’Essex, furono la band per definire la quale un noto critico musicale del tempo, nel recensire “Hex”, coniò il neologismo “post-rock”. Di fronte a questo album, considerato seminale, ma per molti aspetti indecifrabile, ogni categorizzazione semplicistica rischia di fallire rivelandosi inadeguata a racchiudere in sè l’intera gamma di espedienti e sfaccettature che impregnano ognuna delle sette lunghe, elaborate tracce che lo compongono. In realtà, di rock tradizionalmente (o no) inteso in “Hex” non vi è pressochè traccia: nessun ritmo regolare, latenza di melodie lineari, uso delle chitarre centellinato e per nulla invasivo, impiego del basso rivolto all’arricchimento delle tessiture sonore e non al sostegno ritmico, vocalità sottotono, quasi nessuna esplosione, mancanza assoluta di un’alternanza strofa-ritornello, nulla o quasi di cantabile, nulla o quasi di immediato. Più che superamento degli stilemi del rock, “Hex” propone un’insolita ibridazione di psichedelia, ambient, lounge e jazz, con netta prevalenza di quest’ultimo; ma suona al contempo tanto elitario da poter figurare come musica da camera, musica colta comunque accessibile, sperimentale ma non avanguardistica. Quella dei Bark Psychosis è una musica fatta di rallentamenti rarefatti, melodie intrecciate sospese sul nulla, un corpus ricchissimo di brani quasi sempre aperti, inconclusi, con code che sembrano slegate dal contesto, addirittura avulse dal resto del brano: “The loom” inizia con piano e violini, prosegue con ritmo jazzato, termina percussiva, “Absent friend” viene introdotta da un organetto, seguito da un pianoforte e da uno strimpellio distillato che lasciano spazio alla voce filtrata e ad una serie di note in cascata a produrre un effetto quasi tangibilmente liquido, prima di un altro finale di matrice ambient. Ma c’è anche l’esangue, notturna fragilità di “Fingerspit”, con la sua emotività continuamente trattenuta e rilasciata, il tema dub di “Big shot”, chiusa in lounge orchestrale a mo’ di soundtrack, l’impalpabilità di “A street scene” che lambisce territori jazz virando improvvisamente grazie ad un tema chitarristico consonante. Ogni brano è in movimento lento, mai traumatico nè aggressivo, in evoluzione contorta ma fruibile, complessa ma non impenetrabile: la frase di chitarra che ricama “Eyes & smiles” indugiando su un controtempo dispari prima di amalgamarsi ad una tromba trasognata è deliziosamente difficile da seguire, ma regala uno stato di trance metafisica inebriante, al pari dello strumentale conclusivo “Pendulum man”, che si sviluppa per quattro minuti attorno a due note di chitarra e collassa nella consueta impalpabile atmosfera onirica, notturna ma non crepuscolare. Disco paradossalmente di piacevole ascolto benchè irto di asperità nascoste, scrigno ricco di musica ricamata ad arte per produrre un effetto rasserenante e straniante. (Manuel Maverna)