recensioni dischi
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JOHN FULLBRIGHT  "From the ground up"
   (2012 )

Il poco più che ventenne John Fullbright è un talentuoso cantautore dell’Oklahoma cresciuto in una fattoria ed innamorato della grande tradizione musicale tipicamente americana: l’ampio spettro di influenze che risuonano nel suo lavoro di debutto (che è addirittura un live) risalente ad un paio di anni fa sono ben presenti anche sul vero e proprio esordio discografico datato 2012, questo “From the ground up” capace di rileggere con piglio sciolto ed ostentata sicurezza un secolo di folk e blues. In apparenza umile e modesto, ma sotto sotto sciolto e presuntuoso al punto da credersi la reincarnazione vivente di Woody Guthrie, il ragazzo è a tal punto spocchioso e supponente da rasentare il delirio di onnipotenza, ed il problema è che – con le doti che possiede – potrebbe non sbagliarsi di molto. Con la padronanza di un veterano, l’imberbe John domina pianoforte e chitarra dispiegando la propria stentorea vocalità in tracce che alternano – quasi metodicamente – ballate pianistiche d’atmosfera, focose impennate blues e massicce iniezioni di folk dylaniano, sempre sospinte da un timbro sia potente che impastato/sbavato ad arte per produrre il massimo impatto possibile. Purtroppo l’enfant-prodige spreca in parte la propria genialità mettendola al servizio di canzoni spesso non irresistibili, in alcuni casi – nemmeno tanto infrequenti - addirittura tediose: è il caso dei lentacci pianistici, che vorrebbero suonare intimistici ma risultano solo noiosi ed inconcludenti (“I only pray at night”, “Nowhere to be found”, la soporifera “Song for a child”), come accade del resto anche per un paio di folk-ballads inessenziali (“Me wanting you”, “Forgotten flowers”) che la voce di John contribuisce solo in parte a salvare dall’anonimato. Per fortuna ogni tanto il nostro azzecca qualche bluesaccio tirato e cattivo quanto basta per svegliare l’atmosfera (“Gawd above”, “All the time in the world”), ma soprattutto erige i quattro pilastri portanti del lavoro puntellando il tempio ed assicurandone la tenuta: i sei minuti in crescendo spasmodico della dylanianissima “Jericho”, lo sghembo swing furbetto ed irresistibile di “Satan and St. Paul”, il bluesaccio cadenzato di “Moving” (con un’interpretazione vocale magistrale) e soprattutto il superlativo blues in minore per piano e violino di “Fat man”, che da solo varrebbe l’acquisto. A conti fatti, non molto per un artista comunque futuribile e dotato di enorme talento, con a disposizione all the time in the world per rivelarsi compiutamente: la storia dirà se saprà fare meglio di “From the ground up”, ma soprattutto se ci troviamo al cospetto soltanto di un eccellente interprete o anche di un songwriter in grado di scrivere canzoni migliori di queste. (Manuel Maverna)