BUILT TO SPILL "There's nothing wrong with love"
(1994 )
L’evoluzione dei Built to Spill, band originaria dell’Idaho, è stata ed è tuttora degna di nota. Nati come ensemble intellettual-noise, hanno saputo nel tempo trasformarsi in band di culto, conferendo ad una proposta inizialmente difficile da etichettare un proprio marchio di fabbrica ed una precisa, distintiva identità. Per traghettare questa espressività disturbata alle lunghe, elaborate composizioni della fase matura, Doug Martsch e soci realizzano un secondo album che si distacca in larga parte dalla bizzarra psichedelia rumoristica degli esordi per recuperare una sorta di pop-rock bislacco ed infido. In una miriade di rimandi, echi, riferimenti che portano dai Pavement ai Weezer, da Albini a J Mascis, si susseguono canzoni volutamente inconcludenti segnate da scordature metalliche (“Cleo”, che inizia con un basso alla Codeine) e truccate da pop-song deviate, come accade ad esempio in “Reasons”, pur provvista di un vero ritornello, o in “Big dipper”, con un riff sincopato che la rende pericolosamente vicina ai Pixies più abbordabili, pur senza la follia istrionica di Frank Black. La voce di Martsch è nasale, piatta, poco incline e per nulla adatta alle modulazioni, dalle quali rifugge con naturalezza prediligendo un registro monocorde privo di profondità. E’ un pop (mascheratissimo) che non entusiasma, troppo sfuggente per appassionare, troppo slabbrato per risultare contagioso, un pop nel quale le canzoni non decollano quasi mai perchè non vogliono farlo, stroncate da una ricercatezza quasi ridondante, a tratti stucchevole. Non a caso, gli episodi più riusciti sono quelli nei quali la band si ricorda del buon debutto ed anticipa i fasti di “Perfect from now on”, brani che assumono la forma di lunghe cavalcate elettriche in crescendo (“Some”, la conclusiva “Stab”) o che meglio di altri riescono ad avvicinarsi ad un rock più canonico, seppure modificato ad arte per produrre un bizzarro effetto stralunato: ne sono validi esempi sia “Distopian dream girl”, rock-song nervosa contrappuntata da ogni possibile inserto nevrotico di chitarra, sia la pixiesiana “The source”, dove in poco più di tre minuti accade di tutto, con stop-and-go improvvisi, un ritornello abortito, un intermezzo noise ed una reprise bruscamente interrotta, sia il bozzetto surrealista di “Car”, forse il picco emotivo dell’album. Le canzoni non sono poco sviluppate (come nei Pavement), bensì sono sviluppate in modi obliqui, ricorrendo ad una scrittura che partorisce un esercizio di stile piuttosto inconsistente: è un lavoro subdolo, discretamente inutile, che non invoglia al riascolto. Ci si potrebbe alzare a metà dell’album lasciandolo suonare, concedendosi una pausa in bagno, un caffè, una sigaretta, quattro chiacchiere, un giretto in strada: al ritorno, rimesse le cuffie, si avrebbe la certezza di non essersi persi niente. (Manuel Maverna)