ANGELO BRANDUARDI "Alla fiera dell'est"
(1976 )
"Di questa roba o non ne vendiamo una copia o ne vendiamo un milione": la profetica frase fu del discografico (David Zard) che alla fine si decise a pubblicare un disco che, per mesi, nessuno aveva voluto. Addirittura alla RCA, con cui Branduardi aveva pubblicato in sordina i primi due album, si erano messi a ridere sentendo quell'assurda filastrocca di cani che mangiano gatti che mangiano topi. L'album vendette tre milioni di copie restando un anno in classifica. Ma non subito. Il fatto era che Branduardi, sua moglie Luisa che si occupava dei testi e Maurizio Fabrizio (splendido e sottovalutato autore) che curava gli arrangiamenti, vivevano in un mondo tutto loro. Alla metà degli anni '70, se eri un cantautore dovevi essere impegnato politicamente e socialmente. Altro che storielle di cervi, corvi, nuvole e fiori. Non era facile, allora, credere in quella roba. David Zard, storico produttore e organizzatore di concerti, ci credette: organizzava il tour di Gloria Gaynor e alla fine di ogni serata, con l'incasso pagava sala di registrazione e musicisti. "Alla fiera dell'est" nacque così, come una scommessa di un pugno di persone che credevano in qualcosa che non si era mai sentito prima. Almeno in Italia, perché poi Cat Stevens, diversi gruppi progressive (Gentle Giant e Genesis in testa) e decine di musicisti dediti alla tradizione celtica, questi terreni li battevano già da tempo. Per l'Italia, invece, queste canzoni che sapevano di fiaba e medioevo, che rimandavano ai reel e alle gighe del nord Europa quanto alla musica rinascimentale e alla tradizione ebraica, erano un novità. E, come ad ogni novità, bisogna farci l'orecchio: "Alla fiera dell'est" languì nei negozi per sei mesi prima di esplodere col botto. Ma da quel momento non solo il disco, ma anche Branduardi stesso diventò un punto fermo, per quanto atipico, del panorama musicale italiano, e canzoni come "Sotto il tiglio", "Il dono del cervo" o "La favola degli aironi" avrebbero raccolto un mare di entusiasmo anche all'estero (ascoltate, se ne avete occasione, la versione inglese dell'album, "Highdown fair": vi sorprenderà!). Strano che la lezione del menestrello di Cuggiono, che poi avrebbe continuato a sfornare molti ottimi album in questo filone, non sia stata ripresa da alcuno, ma forse nessuno sarebbe stato credibile quanto lui alle prese con questo tipo di materiale. (www.luciomazzi.com)