WARPAINT "The fool"
(2010 )
Simili a vestali di un culto pagano tramandato clandestinamente e giunto fino ai giorni nostri dalle profondità degli anni ottanta, quattro graziose ragazze losangeline – la front-woman Emily Kokal fu per un certo periodo la compagna di vita di John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers - si inventarono le Warpaint non più tardi di un paio di lustri orsono. Dopo un intrigante ep di debutto datato 2008 (Frusciante si occupò del mixaggio, ma non della produzione), il quartetto pubblicò nel 2010 “The fool”, lavoro che rimane ad oggi il solo realizzato sulla lunga distanza, e che si configura come opera assai più complessa di quanto possa apparire ad un ascolto superficiale; album ostico e infido, offre cinquanta minuti di musica subdola che avvolgono in un magma sibillino rinunciando all’immediatezza, giocando altresì con maliziosa perfidia a nascondere melodie sfuocate sotto una coltre di effetti e piccole ricercatezze. E’ una musica trasognata ed ammaliante, al contempo suadente e spiazzante, quasi contenesse o celasse abilmente elementi avulsi dal quadro generale, si tratti di un’imperfezione voluta, forse di un errore, uno squilibrio, un impasto stranamente amalgamato o chissà quale oscuro magheggio. Mentre la bella Emily gorgheggia flautata in un registro vocale che oscilla tra il piglio fanciullesco di Susanna Hoffs e le impennate melò della musa Siouxsie (ad esempio nell’arabesco funkeggiante di “Undertow” o nell’ipnosi contorta di “Bees”), sfilano sulla ribalta nove composizioni dilatate ed ingannevoli, memori sì di riconoscibili sonorità di derivazione eighties, ma attualizzate dalla scrittura dei brani e da sontuosi equilibrismi nelle dinamiche. Se le atmosfere rimandano inevitabilmente alla dark-wave d’antan, il taglio psichedelico dei brani le smorza e le complica; le partiture del basso (non a caso mixato – scelta discutibile ma comprensibile – in secondo piano) sono arzigogoli mai portanti, atti più ad intasare/colorire le trame anzichè a sorreggerle come accadeva nella new-wave; il cupo rimbombo di fondo viene contrappuntato da chitarre pesantemente flangerate o riverberate (l’ossessiva cadenza di “Set your arms down”) che occupano il proscenio talvolta sovrastando sia la voce, sia il drumming, trattato in post-produzione in modo da sembrare sintetico. Poche le tracce di canzoni lineari (su tutte la ballata arpeggiata di “Baby”): “Shadows” è sì introdotta da uno dei rari giri mainstream di chitarra acustica – quasi una folk-ballad -, ma si tramuta in un’aria lounge con un chorus monocorde che ne divora l’armonia; “Composure” arranca a fatica, sospinta dalla reiterazione di un coretto e rivitalizzata da una inattesa impennata, prima di naufragare volutamente nel nulla, come accade anche al sogno sfigurato di “Majesty”, prima che un pianoforte slegato tinga di sfuggente romanticismo il languido tribalismo della conclusiva “Lissie’s heart murmur”. Musica di non semplice assimilazione, solo di rado piacevole, musica che trova nelle atmosfere laid-back e nelle spire avvolgenti di una scrittura non banale la propria ragion d’essere. (Manuel Maverna)