recensioni dischi
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AFTERHOURS  "Non è per sempre"
   (1999 )

A volte, per alcuni artisti che hanno da poco vergato il proprio capolavoro, risulta impresa ardua, se non impossibile, dare seguito a quel picco creativo mantenendosi sui medesimi livelli di eccellenza qualitativa. Per Manuel Agnelli e soci – già lacerati al loro interno dalle tensioni che porteranno all’abbandono di Iriondo – il compito di bissare il bagno di genio che inzuppava “Hai paura del buio?” fu evidentemente di difficoltà improba, al punto da portarli a realizzare un album inevitabilmente transitorio che non aggiunge nulla alle splendide pagine già scritte. Fra le tredici tracce di “Non è per sempre”, disco comunque ampiamente rivalutato dalla band negli ultimi tempi, per quanto ci si sforzi di cercare spunti, idee e tesori nascosti, non si riesce a trovare un filo d’Arianna che conduca in qualche luogo preciso: si va alla deriva verso un nulla frammentato, privo sia dei guizzi acidi e della schietta follia omicida di “Hai paura del buio?” che della fosca tetraggine esistenziale che rivitalizzerà la band nel successivo “Quello che non c’è”. A ben vedere, la coesione e la coerenza stilistica non hanno mai rappresentato un tratto distintivo degli Afterhours, ma la tediosità che questi nuovi brani trasudano appesantisce e mitiga la verve suggerita da alcuni degli episodi meglio riusciti. Agnelli è un assassino stanco, che uccide ancora solo per soddisfare la routine del gesto in sè e non più per vera sete di sangue, un killer che qualche colpo lo vibra ancora con maestria, padrone del mestiere senza più voglia di esercitarlo. L’inizio è promettente, con l’ossessiva elettronica metallica di “Milano, circonvallazione esterna”, che cita i Suicide ad un passo metronomico mentre Agnelli sussurra svogliato il suo verbo nichilista, subito seguita dalla dolce ballata della nota title-track e dalle sciabolate elettriche di “La verità che ricordavo”, classica e senza cuore pur nel suo fragore. Qualche buona intuizione si trova ancora nel frastuono malato di “Non si esce vivi dagli anni ‘80”, nella bruciante “L’inutilità della puntualità” e nel guizzo inquieto di “L’estate”, ma nel mezzo una serie interminabile di canzoni fiacche (non necessariamente nei suoni) deprime il tono generale di un album che corre lento su un filo precariamente sospeso sull’abisso della vacuità. Le noiose cantilene di “Oppio” e “Oceano di gomma”, così come le non indispensabili “Superenalotto”, “Tutto fa un po’ male” e la conclusiva “Cose semplici e banali” - su un registro monocorde al limite della dissonanza - lasciano un senso di delusa incompiutezza: alla fine, qua dentro non c’è niente di più degli Afterhours che giocano a rifare gli Afterhours, mentre dovevano forse sembrare un po’ meno Afterhours di così. (Manuel Maverna)