recensioni dischi
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CODEINE  "Barely real"
   (1993 )

I Codeine di Chicago furono una band che conobbe una breve ma significativa stagione nella prima metà degli anni novanta. Insieme ad altri pionieri del genere contribuirono a coniare il cosiddetto slo-core, musica concettuale suonata al rallentatore e dipanata con studiata lentezza in lunghe composizioni arrancanti. Benchè il nome dei Codeine sia sovente accostato a quello dei Red House Painters, coi quali condivisero la discutibile paternità di questo sottogenere, estremamente diverse sono le prospettive dalle quali le due band presero le mosse: di derivazione folk i Painters – che si sarebbero evoluti nel veicolo melanconicamente intimista di Kozelek -, di colta estrazione noise-jazz i Codeine, la cui formula peculiare ne sancì sia l’affermazione, sia l’impossibilità di perpetuare cotanta dotta autoreferenzialità oltre pochi dischi. In questo senso, i Codeine suonano più vicini alla ricerca(tezza) degli Slint ed al post-rock sofisticato più che al depresso spleen drakeano percepibile – ad esempio – nelle cantilene esistenziali degli Idaho: se questi ultimi si limitano a cupe ballate lineari suonate a velocità dimezzata, i Codeine alterano invece sia la struttura della canzone, sia la fruibilità delle melodie, sia il “dosaggio” degli strumenti. “Barely real” è un mini-album di sei tracce e venticinque minuti che vide la luce nel 1993, un ponte tra il debutto di “Frigid stars” ed il canto del cigno di “The white birch”, pubblicato l’anno successivo. Componendo da un punto di vista tipicamente intellettuale, che prevede la soppressione degli aspetti emotivi – a partire dallo stile dimesso di canto – e la conseguente elaborazione di partiture “ragionate”, il trio apre distillando l’esangue litania di “Realize” su un registro alla My Bloody Valentine, con una melodia fragile e sfumata punteggiata da un feedback in secondo piano, ma cambia subito tono nella continua, fremente esitazione di “Jr” che incespica su una cadenza trattenuta fino allo spasmo, e propone quindi con piatto distacco il ritornello appena abbozzato della title-track, sorretta da un bizzarro impianto di stop-and-go a singhiozzo. Più che brani compiuti, pare di ascoltare prove, idee, accenni di canzoni che suggeriscono senza svilupparsi: è il caso di “Hard to find” col suo rallentamento esasperante, spinto – si fa per dire – da un basso desolato e indolente, o dell’esperimento strumentale di “W.”, una sghemba sonata cameristica per pianoforte a metà strada tra free-jazz e minimalismo, un po’ Glass un po’ Stockhausen, intreccio improbabile di linee armoniche che naufragano nel nulla. Solo nel brano di chiusura il gruppo sceglie di coniugare sperimentalismo astratto e forma-canzone, pennellando una “Promise of love” dal passo notturno lievemente allucinato e visionario, che lambisce la grazia sottotono di Paul Simon prima della deflagrazione ondivaga à la Polvo, a sua volta preludio al recitativo à la June of ’44 ed alla deriva strumentale che chiude ancora una volta in bilico su un abisso, profondo ma non spaventoso. Disco di non facile ascolto – sebbene induca all’impressione opposta - che produce un effetto straniante: non ammaliante come il canto ingannevolmente fascinoso di una sirena, piuttosto ipnotico come la nenia traditrice di un incantatore di serpenti. (Manuel Maverna)