VENUS "Welcome to the modern dancehall"
(1999 )
La prima volta che vidi live i Venus, quintetto belga legato a Gianni Maroccolo (in quel periodo artefice del tentativo di lancio di altre band dell'Europa francofona come Corman & Tuscadu e Ulan Bator), e da lui stesso prodotto per questo album del 1999, fu all'Alcatraz di Milano. Aprendo per i Marlene Kuntz, la nutrita audience che attendeva forse un’esibizione consona al rumorismo colto dei piemontesi rimase – me compreso – del tutto spiazzata. Quando attaccarono il primo brano, realizzammo che la strumentazione era composta da chitarra acustica, contrabbasso, violino, violoncello ed un rullante minimale, una bizzarra orchestrina capace di offrire una folgorante miscela di sonorità inusuali, melanconia di fondo e sorprendente energia, nonostante il set fosse praticamente acustico e largamente incentrato sui brani di "Welcome to the modern dancehall", oggi come allora lavoro che dispensa in tredici tracce vibranti l'intero campionario di arte visionaria del gruppo. I brani danno lampante prova di triste introversione, riuscendo a miscelare atmosfere decadenti ad un'espressività fosca in bilico tra un languido romanticismo d'intenti ed una palese propensione alla ricerca dell'atonalità; lo sfavillante trittico iniziale risuona come una versione ante-litteram dei Muse, sebbene il punto di partenza (intimismo vs. pop sinfonico) sia differente. I Venus propongono in tal senso una sorta di sinfonia da camera che lievita in modi obliqui giungendo di rado alla deflagrazione, piuttosto trattenendo il pathos, imbrigliato in composizioni apparentemente piacevoli, ma in realtà dissonanti: "Monster" risuona come un cupo rimbombare di note basse in crescendo percussivo, "Ball room" potrebbe essere cantata sì da Bellamy, ma l'effetto che produce è stordente (al limite del fastidioso), così come la conclusiva, fumosa atmosfera di "Bass shivering bass", contrappuntata dal violino stoppato in un caotico vortice di tensione, inquieta anzichè rilassare. Di tanto in tanto la band concede qualche pausa più gradevole, come nella palpitante rievocazione storica di "White Star Line" o nelle toccanti discese agli inferi di "I am the ocean" (con musica di Giorgia Poli, ex-Scisma) e "Out of breath", e così pure nel bozzetto appena accennato di "Dizzy"; ma più spesso è l'incertezza a dominare, in pezzi affilati come rasoi (mirabile "Perfect lover" con un ingorgo sonico da capogiro), o buffamente e smaccatamente pop ("Pop song" potrebbe essere "Happy hour" degli Housemartins), se non addirittura beffardi nella loro alchimia di ritmi dance e bassi fuori posto ("She's so disco", su un registro da primi Japan). Disco complesso e misterioso che cita tutto e niente, al tempo stesso rovente e gelido, autentica fucina di idee difficili sia da focalizzare, sia da comprendere appieno. (Manuel Maverna)