recensioni dischi
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SUN KIL MOON  "Admiral fell promises"
   (2010 )

Volontariamente autocondannatosi all’esilio nella turris eburnea del solipsismo, Mark Kozelek è oramai divenuto spettatore di sé stesso. Uomo descritto come estremamente schivo ed ombroso, prigioniero di una folla di fantasmi, ricordi, luoghi, immagini, nomi e dettagli, Kozelek è finalmente giunto ad operare la (quasi) definitiva metamorfosi del progetto Sun Kil Moon, di fatto trasformando la band nel travestimento estremo dietro al quale celare la propria identità. Oramai Sun Kil Moon e Mark Kozelek sono non soltanto la stessa persona, ma anche la stessa cosa, la stessa musica, lo stesso mood depresso e dimesso, la stessa scrittura. Vengono meno anche gli angusti anfratti nei quali poteva manifestarsi un minimo di creatività da parte degli altri membri del gruppo, il cui apporto era limitato alla compartecipazione agli arrangiamenti ed alla definizione del sound; di fatto Sun Kil Moon è oggi lo pseudonimo di Mark Kozelek, che si presenta sul mercato sotto mentite spoglie solo perchè l’espediente gli frutta vendite migliori, e non già per ragioni artistiche. Padre e padrone della piccola etichetta discografica della quale è fondatore ed unico proprietario, Mark incide privo di qualsiasi condizionamento, tenendo d’occhio il mercato solo quel tanto che basta per assicurarsi un’esistenza dignitosa. Il disinteresse di Kozelek per lo sfarzo, la mondanità e l’opulenza del jet-set traspaiono con evidenza cristallina dalla sua musica, divenuta sempre più esile e fragile, ingentilitasi attraverso il progressivo smussamento delle asperità che ne caratterizzavano - fin dai lontani esordi coi Red House Painters - l’incedere sempre subdolamente rallentato. La meditativa introspezione e la cupa riflessività segnano oggi l’intera produzione di Mark, il cui timbro vocale e la cui tecnica strumentale si sono negli anni evoluti seguendo il suo progressivo distacco dallo showbiz ed offrendo adeguati appigli alla sua nuova, mutata scalata verso l’ascetismo. Presuntuoso nella sua insistita autoreferenzialità, privo di immediatezza, quasi insormontabile nella fatica che richiede per essere penetrato e digerito, “Admiral fell promises” (è il titolo di un suo vecchio brano minore) volta le spalle al mondo, riuscendo a non tradire lo stile proprio di Mark (per i non adepti del culto leggasi: nenie soporifere per voce, chitarra e poco più) pur proponendo un inaspettato, a suo modo geniale passo laterale. Armato unicamente di una chitarra classica – si badi bene: classica – acquistata usata da un antiquario per sessanta dollari, sulle ali di una recente passione per le melodie di Sègovia e sfruttando un’abilità chitarristica non indifferente, Kozelek pennella dieci tracce per sola voce e nylon, tutte strutturate con lunghe strofe, ritornelli esili e break di chitarra classica solista. La voce giunge noiosamente indolente, monocorde ma sottilmente sofferente, un cantilenare ritmico che sfiora il falsetto (“You are my sun”), e che narra con la consueta abilità spaccati di vita la cui fissità richiama l’America senza profondità dipinta da Hopper; è un mondo fatto solo di sfumature di grigio, le stesse che pare di vedere da quella finestra in copertina (è la finestra di “Third and Seneca”?), una successione di bianchi e neri che suggeriscono senza mai svelare. Le storie di Kozelek sono sempre la parte per il tutto, il particolare che rimanda all’universale, le storie di uno che divengono storie di chiunque, come se il nome di una via o di una persona potessero trasformarsi in qualsiasi via del mondo o in ogni persona col suo vissuto, sempre indifferentemente grigio ovunque essa si trovi. Sono brani lunghi, intensi, arricchiti sontuosamente dall’arpeggiare sapiente di Mark sulle corde della chitarra classica (ne aveva dato un’anticipazione nell’inciso di “Blue Orchids”, canzone che chiudeva “April” nel 2008), dieci brani spesso dilatati oltre i sei minuti, dieci brani che riescono a regalare brividi – e tanti – col nulla di cui sembrano disporre: di brividi – e tanti – ne regalano gli otto dolci minuti di “The leaning tree” col suo mellifluo, ingannevole corteo di anime trapassate, o il racconto minimalista dell’opener “Alesund”, o ancora la più accessibile “Australian winter” con un giro profondamente triste ed evocativo di nebbie lontane e paesaggi desolati o la serafica, trascendente melodia di “Bay of skulls” che chiude il lavoro senza approdare a nulla. “Admiral fell promises” resta comunque solo ed esclusivamente un disco per i fan, per gli iniziati, un ascolto sinceramente improponibile ed inconsigliabile per coloro che intendessero accostarsi al piccolo mondo antico di un artista grandioso nella sua insistita, testarda, caparbia ricerca di un eden solitario dove compiangersi e ricordare, in un’intima, tormentata tranquillità. (Manuel Maverna)