recensioni dischi
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BAUSTELLE  "I mistici dell'occidente "
   (2009 )

I toscani Baustelle sono un trio allargato in attività da circa quindici anni, nel corso dei quali hanno realizzato cinque album di studio e vari altri progetti di diversa natura, ivi compresa la colonna sonora per un lungometraggio nel 2009 e la pubblicazione di un libro autobiografico nel corso di quest’anno. Sulle ali di un crossover atipico che miscela psichedelia leggera retrò, revival melodico anni sessanta ed accenni di new-wave in salsa surf e beat, si libera il crooning baritonale, languido e melodioso, di Francesco Bianconi, il cui canto si mantiene sempre entro i limiti autoimposti dalla peculiare scelta stilistica eletta dalla band a tratto distintivo; il ruolo dominante è quindi affidato alle atmosfere, agli arrangiamenti, alla ricerca insistita di armonie meno che convenzionali, caratteristiche che conferiscono a questa musica d’altri tempi una marcata connotazione artistoide, in un tentativo ostinato di rifuggere dalla banalità compositiva imprimendo ad ogni traccia una - talvolta forzata - aura di alternatività. Il trittico di brani che aprono l’album è emblematico in tal senso: l’opener “L’indaco” imbastisce al rallentatore una trasognata litania cantilenante sulla morte, che non è nè lugubre nè triste, solamente stralunata e dilatata, quasi sospesa a mezzaria sul canto di Bianconi, distillato a mezza velocità su una cadenza già agonizzante e contrappuntato da un flauto sfuggente; la successiva autoreferenziale “San Francesco” si snoda su un’armonia complessa propulsa con fatica arrancante da un testo ermetico, mentre la title-track inizia su un registro alla De Andrè per aprirsi su un chorus tanto ampio quanto debole, preludio ad una reprise del tema e ad una bella chiusa per tromba. Il mood riflessivo e tendenzialmente soporifero del disco viene scosso e sovvertito dal mid-tempo che guida l’amarcord di “Le rane” da un ritornello contagioso alla coda strumentale in stile musical, quindi corroborato dal godibilissimo pasticcio del primo singolo “Gli spietati”, che riesce a citare in rapida successione “Ma che colpa abbiamo noi” dei Rokes, “Bravi ragazzi” di Miguel Bosè e – nel finale - Vasco Brondi che gioca a fare Rino Gaetano. L’amaro racconto di un amore giunto al capolinea riprecipita il mood dell’album in una landa grigia come la spiaggia desolata descritta nel rallentamento esasperato di “Follonica”, ma subito dopo il saliscendi ritmico riserva il country truccato di “Groupies” e soprattutto la scintillante ballata di “La bambolina”, dramma di periferia cantato da Rachele Bastreghi in un registro squillante ed al contempo sofferente. Il brano è un fulgido esempio dell’arte sonora del gruppo: procede spedita fino al ritornello, che volutamente Bianconi sporca “sbagliando” i due accordi portanti (il terzo ed il quarto dei cinque), di fatto impedendo al chorus di librarsi come avrebbe potuto, in qualche modo castrandone la veemenza e limitandone l’appeal. Ma tutto è ordito e congegnato alla perfezione per sortire un effetto straniante e – ancora una volta – psichedelico, come nella languida dilatazione della conclusiva “L’ultima notte felice del mondo”, splendida melodia il cui respiro è reso ancora più ampio dalla sapiente orchestrazione che sa di anni lontani e di sale da ballo di provincia. Disco ben concepito ed altrettanto sontuosamente arrangiato, il cui limite maggiore, oltre ad una malcelata patina di spocchiosa – ancorchè legittima – presunzione, risiede forse nella latitanza di canzoni forti: sembra spesso mancare un’emozione vera, come se l’intera opera rischiasse ad ogni pie’ sospinto di rimanere impaludata nella fanghiglia della forzata ricercatezza, sacrificando l’intensità emotiva di brani che in diverse occasioni giungono a lambire la noia. (Manuel Maverna)