recensioni dischi
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BABYSHAMBLES  "Down in Albion"
   (2005 )

Se Pete Doherty sapesse anche scrivere canzoni, si chiamerebbe Paul McCartney, ma non lo sa fare in modo strabiliante, ed è solo Pete Doherty. Per carità, il ragazzo di doti ne ha: performer eccellente (quando è in condizioni accettabili) e carismatico, look giusto, canzoni furbette quanto basta per intrigare ed affabulare, sound british al 100%, qualche spruzzata di trasgressione ad uso e consumo dei kids, ed il gioco è fatto. Ecco scodellati sedici brani per oltre un’ora di musica, sedici porte sull’universo – piccolo, ma ben fatto – di Doherty e soci. Anche se sulla lunga distanza il lavoro appare pretenzioso e ridondante in alcuni episodi affatto necessari (la pagliacciata etnica di “Pentonville”, ad esempio, come pure la mielosa “In love with a feeling”), e sebbene lo sbadiglio si affacci dietro l’angolo, è innegabile che molte delle tracce si caratterizzino per uno sforzo non banale nè trascurabile di rimpastare i crismi del pop britannico in forme bizzarre ed accattivanti. Ecco allora il buon Pete sciorinare indolente l’intero repertorio di trucchi del mestiere, sottraendo punti di riferimento grazie alla potenza di un canto del tutto personale, fatto di continue esitazioni, pause, recitativi, impennate, alti e bassi inattesi, note strappate, ritornelli ubriachi, coretti sbavati e facezie assortite; la band, dal canto suo, si limita a svolgere diligentemente il compitino di accompagnamento, con una sezione ritmica trainante e pulsante (a volte di matrice Stranglers), una chitarra normalmente tagliente ma mai cattiva nè acida (ricorda la distorsione di Steve Jones), strumenti essenziali che pennellano ad arte una strana mistura di riferimenti palesi (fanno capolino gli Stone Roses, i Clash sono ovunque, gli Smiths anche, “Back from the dead” potrebbe essere una canzone di Johnny Marr) e di strutture armoniche spezzate e smozzicate, continuamente interrotte ed abortite. E’ questo l’elemento che infonde linfa vitale e preziosa in canzoni che altrimenti rischierebbero di naufragare in un brit-pop di maniera, ma in tale veste restano invece dignitosamente a galla, come ben dimostrano l’iniziale pastiche fratturato di “La belle et la bete” o l’accelerazione monca di “Killamangiro” che stronca da sè un chorus contagioso appena accennato. Si va dalle ballate alcooliche (“Albion”, con un testo impregnato di tutto il possibile nichilismo britannico) alle cavalcate punkeggianti (“Pipedown”), da sprazzi riflessivi (“What Katy did next”) ad intuizioni interessanti e ben sviluppate (“A’ rebours”). L’attitudine c’è, gli arrangiamenti pure, la presenza scenica è garantita: il punto debole del lavoro è la mancanza delle canzoni, nel senso che nessun brano (a parte forse la monellata di “Fuck forever” che azzecca un refrain memorabile e politicamente scorretto) è straordinario, seppure tutti siano almeno discreti. Disco pretenzioso, ben realizzato, a tratti godibile, a lungo andare noiosetto. (Manuel Maverna)