recensioni dischi
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IOSONOUNCANE  "La macarena su Roma"
   (2010 )

Una necessaria, imprescindibile considerazione d’apertura: nel caso del signor Jacopo Incani, trentenne sardo da qualche anno annoverato tra gli artisti più talentuosi di una certa – estrema - scena indie italica, parlare di musica tout court sarebbe improprio: la sua è un’altra forma d’arte, qualcosa di più affine al teatro col suo intrinseco corollario di sonorità a fungere da complemento (si direbbe quasi da soundtrack). Poco senso ha parlare di canzoni propriamente intese, ogni traccia essendo uno sketch grottesco solo apparentemente a sé stante, in realtà tessera di un mosaico osservabile solo da lontano e ad opera(zione) terminata. Proposta difficile, ostica, a tratti impervia: del resto, quando l’espressione artistica assume le forme, i toni e le sembianze dell’avanguardia latu sensu – corrente trasversale alla quale va ascritta la dimensione di Incani – risulta difficile, se non impossibile, scindere gli aspetti contenutistici da quelli formali che la caratterizzano e ne veicolano il messaggio. Quello inscenato da Incani è un teatrino decadente, un bestiario di orrida (dis)umanità abbruttita, un compendio spietato ed impietoso che denigra i luoghi comuni delle umane bassezze attraverso un linguaggio edificato proprio sul loro impiego; il ricorso al discorso diretto acuisce il senso straniante di vacuità e smarrimento, come se i commenti della gente comune – un popolino bue di gretta insensibilità ed ottusa ignoranza senza possibile redenzione – fossero la sola linfa che innerva il mondo rovesciato dipinto a tinte fosche da Jacopo negli undici episodi del lavoro. Psicotico e schizofrenico, il folle teatrante interpreta da solo con pungente ferocia tutti i personaggi della sinistra pochade, materializzandoli con vocine, versi gutturali, doppie voci, distorsioni, campionamenti, effetti, rumori ambientali, suoni ed ultrasuoni che puntellano e riempiono la ribalta scricchiolante su cui si muovono marionette deformi. Il suo non è semplicemente un generico tentativo di inquietare: fa paura, il signor Incani, spaventa davvero quando ti costringe a confrontarti con quegli stessi difetti che ti rinfacceresti se avessi il coraggio di vederli. Mai in cinquanta minuti fa capolino la benchè minima traccia di humour, nonostante la mascherata possa falsamente indurre in tentazione; mai la cappa di piombo che il novello Boesch stende sul suo microcosmo cessa di incombere minacciosa ed opprimente, mai l’ascolto diviene piacevole, men che meno leggero o invitante al disimpegno. E se dal punto di vista strettamente musicale questo è un non-disco orribile, fatto di parole scomode, storie tanto vere quanto esecrabili e accenni di musica ricombinata tra Starfuckers e krautrock, artisticamente possiede invece uno spessore inarrivabile, capace di lievitare lentamente portando l’ascoltatore ad un parossismo di tensione quasi insostenibile. Se un limite può ascriversi ad un lavoro di cotanta intensità è forse l’alternanza di episodi estremamente pregnanti e di altri non irrinunciabili, quasi anche Incani fosse vittima della necessità di infarcire l’opera di riempitivi come in un album degli anni ’80: se l’intero lavoro orbita attorno a cinque tracce-cardine che varrebbero da sole l’acquisto e l’ascolto, la rimanente parte delle tracce non aggiungono nulla all’esito finale, risultando addirittura irritanti nella loro palese, inconcludente, superficiale incompiutezza. E’ il caso de “Il ciccione” o de “Il sesto stato”, ma anche del racconto de “Il famoso goal di mano” (sul celebre episodio del goal di Maradona) o del pasticciato baccanale di “Grandi magazzini Pianura” (uno sviluppo della “Mozzill’o re” di CCCPiana memoria?), o ancora del delirio onirico di “Giugno”; ed anche i fugaci inserti di “I superstiti” (un recitato surreale e “politico”) o di “Rifacciamoci la bocca con i cibi buoni di gusto” sono tanto supponenti quanto inutili nell’economia generale del prodotto. Ma poi ci sono i pezzi forti, quelli che davvero definiscono l’arte di Incani, quelli che – da soli – ricreano agli occhi nostri quel mondo sbagliato che denunciano. E fa tremare l’opener “Summer on a spiaggia affollata” col suo gelido resoconto dell’approdo di una carretta del mare davanti ad uno stabilimento balneare gremito di vacanzieri indifferenti a quanto accade, o al più disgustati dallo spettacolo che va in onda a pochi passi da loro: il feroce grido “Bevi, negro!” si alterna con metronomica violenza al “Mamma, non so nuotare” di un bambino che vede davanti a sé una morte tanto precoce quanto spietata, producendo un effetto agghiacciante; la stigmatizzazione del diverso prosegue nella successiva “Il boogie dei piedi”, dove è un extracomunitario in coda alle poste a divenire il bersaglio degli astanti, una piccola folla inferocita e maligna che lo condanna al disprezzo sulla base di dettagli insignificanti; e culmina nel desolante affresco funebre di “Torino pausa pranzo”, dietro il cui algido cinismo si cela la raggelante epifania – svelata per agnizione – della tragedia dell’incidente sul lavoro alla Thyssenkrupp. L’apogeo del lirismo Incani lo raggiunge tuttavia nei due episodi più significativi, intensi e snervanti dell’album: il racconto – smembrato in flashback – dell’incidente stradale mortale de “Il corpo del reato” è solo un pretesto per ripercorrere fasi e scene di vita di paese, mischiandole col dolore soffocato e presunto di una madre che attende sull’uscio il figlio che non tornerà. E’ un crescendo emotivo devastante, fino al tragico epilogo condensato nella freddezza della cronaca che lo rivela: musicalmente si tratta quasi di una canzone “normale”, ma a ben guardare è priva di una linea portante, di un chorus, di una qualsiasi continuità, e come se non bastasse lievita fino ad un climax di drammaticità che la rende a stento sostenibile. Peggio – o meglio – ancora riesce a fare la title-track, la summa dell’intero lavoro, nove minuti deliranti sostenuti da un gelido campionamento ricombinato e narrati a mezza voce dal protagonista, un uomo solo, misogino, meschino e qualunquista sprofondato in poltrona davanti a quella tv-spazzatura che ama ed idolatra, ergendola a modello e ragione di vita; la figura ammantata di grottesca amarezza non riesce a rattristare né a risultare triste essa stessa: è solo un fantoccio vuoto, fatto di niente, terribilmente simile a molti di noi, ed è forse questo ciò che più atterrisce. Disco immenso se considerato come espressione formale di un’arte varia, ibrida e imbastardita, orrendo da ascoltare se privato della sua peraltro necessaria veste avanguardistica: ma gli aspetti non si possono scindere, e “La macarena su Roma” rimane un capolavoro nonostante tutto, che si voglia o no astrarre, prescindere, elaborare, riflettere. Mettete il cd nel lettore, premete il tasto play e scordatevi di ascoltare un disco di musica: non è piacevole, non è rilassante, non è rigenerante, non è musica. E’ qualcosa di grande. (Manuel Maverna)