ARCTIC MONKEYS "Favourite worst nightmare"
(2007 )
L’aspetto più spiccatamente positivo e maggiormente intrigante legato al primo ascolto dell’opera seconda dei britannici Arctic Monkeys consiste nell’impossibilità di prevedere come suonerà il prossimo brano, e già di per sè ciò rappresenta un plus non indifferente. L’aspetto negativo è che il prossimo brano, una volta ascoltato, benchè piacevole e – tengo a ribadirlo – imprevedibile a priori, non è un granchè. L’inglesità del prodotto è strabordante, evidente nelle classiche progressioni armoniche e negli ancora più classici intrecci ritmici e melodici che da sempre connotano il pop albionico, incalzante ed accattivante come poco altro al mondo; ma talvolta a costituire il limite espressivo di cotante intuizioni è proprio l’insistita ricerca di una specificità che, paradossalmente, diventa maniera. La voce filtrata di Alex Turner trafigge l’opener “Brianstorm” in una baraonda di distorsioni, riff, stop-and-go ed amenità varie condensate in meno di tre minuti, lasciando ben sperare ma cedendo altresì il passo a brani meno furiosi e – soprattutto – meno strutturati; “Teddy Picker” riecheggia così i Killers oscillando tra pop e indie, “D is for dangerous” è un funkettone che non dispiacerebbe ad Anthony Kiedis, mentre in “Balaclava” sembra quasi di ascoltare i Subsonica. C’è molta carne al fuoco, dal ballabile lento di “Only ones who know” all’atmosfera noir della percussiva “Do me a favour”, con un bel crescendo elettrico nel finale ed una chitarra à la Johnny Marr, ma qualche tessera del mosaico pare trovarsi sempre fuori posto, come accade nel ritornello debole di “Fluorescent adolescent”. L’accoppiata psicotica di “This house is a circus” e “If you were there, beware” è sì interessante negli incastri della sezione ritmica, ma suona piatta: non banale nè scontata, semplicemente sottotono. Il disco risulta valido, ma in un certo senso fiacco, perfino nel twist scintillante di “The bad thing” o nel mischione di generi di “Old yellow bricks”, a metà strada tra Just Jack e Mattafix, o ancora nella cadenza malinconicamente meditativa della conclusiva “505”, che ha il suono delle lacrime di un’innamorato mentre il treno con l’amata si allontana dalla stazione. Strano disco, che stanca senza annoiare e senza invitare a ripetuti ascolti, forte di buoni arrangiamenti ma privo di impennate significative e/o di canzoni memorabili. (Manuel Maverna)