MIOSSEC "1964"
(2004 )
Christophe Miossec, originario di Brest, è un distinto signore classe 1964, dallo sguardo tenebroso e dalla voce profonda e carezzevole, che da quasi vent’anni offre con garbo ed intrigante introspezione un ampio repertorio scolpito in otto album di sofferta intensità e palpitante, mai scontato romanticismo. Privo di grande estensione vocale, Miossec fa di necessità virtù, ricamando intelligentemente ariose melodie grazie all’intensità dell’interpretazione, sacrificando sì la potenza del canto, ma modellando i brani in una dimensione confidenziale che dona all’insieme una patina di morbida melanconia. Il crescendo sospeso, trattenuto come le lacrime che il protagonista dell’addio narrato non riesce a versare, dell’iniziale “Je m’en vais”, cede così il passo alla salsa sghemba di “Rose”, che racconta di droga con sommessa eleganza, ed al rallentamento desolato di “Brest”, sul tema della perduta giovinezza; scrive bene Miossec, gioca con le parole ribadendo accenti, replicando vocaboli (tutti i versi di “Je m’en vais” iniziano con le stesse parole, come pure quelli di “Dèsolè pour la poussiére”), creando assonanze (“Essayons”, “Le stade de la resistance”), contornando testi sempre interessanti di una musicalità misurata, che assume le sembianze di ballate pacate rigorosamente in tonalità minore, confessioni screziate di tristezza che sfruttano mirabilmente la propria semplicità formale per sortire un effetto suadente e coinvolgente. E’ un morbido fluire, una simbiosi carezzevole di parole e musica; e nonostante qualche episodio suoni troppo vicino alla tradizione, rischiando un appesantimento orchestrale che non giova all’andamento del brano (“Ta chair ma chere”, “Rester en vie”), si tratta tuttavia di cadute sporadiche, sopportabili e perdonabili, mitigate dall’estro controllato che governa il boogie truccato di “En quarantaine”, o le lievi dissonanze di cui è punteggiata l’amarezza retrò nella storia d’amore finita di “Degueulasse”, o ancora la zampata da consumato marpione che rende memorabile il tesissimo crescendo finale di “Pentecote”. Disco che rivela con lucida evidenza la sommessa classe e la sottile maestria di un autore ed interprete umile e sincero, capace negli anni di guadagnarsi una solida fama grazie alla serietà di un basso profilo mai scalfito da ambizioni velleitarie. (Manuel Maverna)