MARY GAUTHIER "Mercy now"
(2005 )
Mary Gauthier è una talentuosa misfit quasi cinquantenne dalla vita piuttosto tormentata e dalla carriera oggi luminosamente consolidata, sebbene alquanto bizzarra nell’insolito sviluppo. Figlia adottiva due volte sfortunata (abbandonata alla nascita in un istituto di New Orleans, fuggita di casa a quindici anni dalla famiglia adottiva), ha trascorso lunghi anni alla deriva tra alcoolismo e vizi vari, cercando di divincolarsi dalle spire di un’esistenza in bilico tra smarrimento ed ostinata ricerca delle proprie origini. Divenuta ristoratrice a New Orleans, proprietaria di una catena di locali, a trentacinque anni suonati ha venduto tutte le proprie attività commerciali per intraprendere la carriera di songwriter, investendo i guadagni accumulati in anni di onesto lavoro e pubblicando il suo primo album nel 1997. Salutata fin da subito da una crescente attenzione di pubblico e critica – sebbene confinata all’ambito country-western, nel quale piuttosto impropriamente è da sempre collocata – Mary ha proseguito nella sua ostinata ricerca, umana prima ancora che musicale, della madre biologica, esperienza descritta nel diario straziante, disincantato e liberatorio di “The foundling”, album-capolavoro del 2010. La classe di Mary Gauthier, performer sarcastica, sferzante e pungente, è andata affinandosi ed affermandosi prepotentemente nel corso degli anni. Dotata di una penna salace e di una sincera e solida attitudine, Mary coniuga in questo fortunato album le varie anime del suo background musicale, operando mirabilmente una sintesi asciutta ed essenziale dei generi e sottogeneri a lei più cari e familiari. Lo stomp da palude della natia New Orleans viene così sublimato in due inquietanti, irresistibili talkin’ blues: i sei minuti dell’iniziale, pigramente cadenzata “Falling out of love”, storia di un amore da quattro soldi avvolta in un’atmosfera sordida, contrappuntata da un’armonica velenosa e dallo sciabordio delle spazzole, e gli altri sei della zoppicante “Wheel inside the wheel”, che esita continuamente su un ritmo fratturato e bislacco; il country bianco di Nashville – città di residenza di Mary - prevale invece nell’arpeggio piano della title-track (su un’andatura à la Patsy Cline), come nell’autobiografica “I drink”, toccante nella sua desolata amarezza, e nei sei minuti abbondanti dell’up-tempo frenetico di “Prayers without words”; l’onnipresente anima di Dylan, infine, fa capolino un po’ ovunque, sia nei due valzer truccati di “Just say she’s a rhymer” e “Drop in a bucket”, sia nelle ballatone lente di “Empty spaces” e “Your sister cried”, con una gran strofa ed un chorus palpitante. Disco in larga parte sontuoso, che dopo avere sparato i suoi numeri migliori si siede un po’ nel finale, senza tuttavia scalfire nè intaccare la cifra artistica di una tra le migliori e più sincere cantautrici americane dell’ultimo decennio. (Manuel Maverna)