MY BLOODY VALENTINE "Mbv"
(2013 )
La pregnanza degli irlandesi My Bloody Valentine nella storia del rock è indiscussa, nessun critico avendo mai messo in dubbio la assoluta centralità del quartetto nella nascita, nella messa a punto e nello sviluppo di un genere (il dream-pop, ibridazione di shoegaze, noise, psichedelia ed ambient) che formalmente prendeva sì le mosse dal rumorismo cerebrale di matrice Velvet Underground, ma concettualmente lo reinterpretava grazie ad una costruzione intellettuale sottilmente differente. Più eterea che violenta, la musica dei My Bloody Valentine apparve più affine al progetto dei Cocteau Twins che al turbinio degenerato dei fratelli Reid, imperniata com’era sull’idea di rumore all’origine delle canzoni, e non già come elemento giustapposto. Grazie ad una manciata di ep e a due soli album considerati imprescindibili per l’indie-rock dell’ultimo ventennio (“Isn’t anything” del 1988 e soprattutto il leggendario “Loveless” del 1991, con l’annesso corollario di vicende che contribuirono a renderlo una pietra miliare), i My Bloody Valentine hanno eretto la propria turris eburnea, rinchiudendosi volontariamente in un esilio tanto interminabile quanto dorato: mai ufficialmente sciolta, la band ha dato negli anni qualche fugace segno di sé grazie a sporadiche apparizioni, sempre accompagnate da incredulo clamore tra i molti estimatori sparsi ovunque, anime mai rassegnate alla perdita definitiva del loro faro. Ammantate di mistero, le figure ieratiche e sfuggenti di Kevin Shields e Bilinda Butcher si sono affacciate qua e là nei lunghi anni di vuoto di un interregno mai abdicato, regalando fugaci presenze e mutazioni professionali che li hanno trasformati in produttori, talent-scout, occasionali dj, autori e sperimentatori latu sensu, senza mai intaccarne lo status di icone. E’ dunque ben immaginabile lo shock serpeggiato tra i fan all’annuncio (ma Shields non era nuovo a boutades analoghe, come quella del 1997 con la quale aveva illuso tutti) della pubblicazione di un nuovo album a 22 (sic!) anni da “Loveless”, ed è comprensibile la palpitazione in preda alla quale, con ritualità quasi religiosa, mani tremanti abbiano lasciato alfine scivolare il cd nel lettore, in preda a parossistica, mistica eccitazione. Nel caso dei My Bloody Valentine, è piuttosto improprio parlare di musica tout court, giacchè questa esattamente musica non è: è piuttosto un’idea di musica, o solo un modo di interpretare la musica secondo criteri concettuali che la travalicano, quasi fosse cubismo applicato alle canzoni (un po’ l’operazione tentata con successo dai Band of Susans, sebbene con differenti sonorità). Siamo di fronte, come già in passato, ad un intreccio di suoni che confluiscono in un magma unico, un frastuono bizzarramente mellifluo, assordante in primis perchè cacofonico, mai violento nè aggressivo nonostante il muro di decibel che da sempre annovera il quartetto tra gli act più rumorosi della storia: a ben guardare, è la stessa operazione di vent’anni fa, lo stesso identico piatto, cucinato secondo la ricetta tradizionale con in aggiunta qualche spezia capace di conquistare nuovi palati. O forse no. In definitiva, i My Bloody Valentine hanno avuto un’idea, hanno creato e definito un sound particolarissimo che ancora oggi è possibile ascrivere immediatamente ad essi e ad essi soli, hanno sublimato l’intuizione in due album seminali, ma si sono fermati lì, senza riuscire (o senza voler riuscire) a sviluppare quell’intuizione portandola a livelli più alti: un po’ come realizzare un nuovo, rivoluzionario oggetto senza poi utilizzarlo. “MBV”, in questo senso, è un album inutile: non aggiunge nulla ai fasti passati e spreca la tardiva opportunità di andare oltre, pasticciando ad arte per confondere le acque senza comunque perdere il terreno conquistato, indulgendo in uno sperimentalismo d’avanguardia che appare vanesio ed autoreferenziale. “MBV” è disco che si presta a mille interpretazioni, tutte valide, tutte opinabili: è album che vuole ribadire un concetto? Che intende ri-marcare un territorio? Che cerca di aggiornare il Verbo ai tempi moderni? O forse è l’ennesimo tentativo futurista e futuribile di un Kevin Shields talmente profetico da riuscire a stabilire una nuova frontiera che soltanto lui riesce a concepire? Domande destinate a restare senza risposta o a ricevere troppe risposte, figlie di un lavoro da esecrare o incensare, da lodare o affossare, senza che vi sia torto o ragione. Facile allora provare un fremito all’incipit dell’opener “She found now”, rimbombante sabba di riverberi e distorsioni che sembra provenire direttamente dalle sessions di “Loveless”, ed impossibile – per i fan d’antan – restare insensibili davanti alla scintillante dilatazione di “Only tomorrow”, con una coda da brividi (dura metà della canzone) ricamata dalla chitarra di Shields sotto strati di feedback; semplice lasciarsi attrarre dalle scordature deraglianti di “Who sees you” col tremolo che devasta l’ennesima melodia strozzata, confusa, sfuocata fino al punto da non essere percepibile nè isolabile dal maelstrom sonoro che ne costituisce l’essenza stessa. Già più complicato gradire l’organo liturgico che introduce l’indugiante atmosfera à la Koop di “Is this and yes” sulla quale la Butcher – novella Liz Fraser - sussurra parole inintelligibili: ciò che sembra una discreta novità, in realtà è solo un escamotage che sostituisce le tastiere alle chitarre; e parimenti incolori sono “If I am” e “New you”, due inaspettati volti pop dei My Bloody Valentine, tracce che procedono cavalcando debolmente altrettante melodie, a tal punto sghembe ed insignificanti da smarrirsi cammin facendo. È il preludio alla terza ed ultima parte, quella più sperimentale, con le staffilate acide di “In another way”, composizione senza capo nè coda, il beat presuntuoso di “Nothing is”, che parte come un pezzo a metà tra Oneida e Prodigy per ripetersi in loop in tre minuti interminabili, e il gran finale delirante della conclusiva “Wonder 2”, marasma senza costrutto fatto di rumori di ogni sorta che danno vita ad una cacofonia insensata buona forse per un rave party, mentre Shields canta una melodia lontana completamente avulsa dal frastuono che la sommerge. Mentre l’eco di quei suoni fastidiosamente lancinanti fatica a spegnersi, resta vivida l’impressione di trovarsi al cospetto di un lavoro per nulla necessario, pretenzioso e gratuito, mai gradevole e decisamente retrò (per assurdo nei suoi episodi migliori), album superfluo e anacronistico che non scalfisce il mito, ma che non serve nè a consolidarlo nè ad amplificarlo: non occorrevano ventidue anni per capire che “Loveless” era un punto di arrivo. (Manuel Maverna)