TALK TALK "Spirit of Eden"
(1988 )
Progressivamente affrancatisi dai fasti degli anni ’80 e dall’effimero riscontro commerciale, ottenuto grazie ad una buona serie di hit radiofoniche ancora oggi nella memoria di molti, i Talk Talk di Mark Hollis seppero lasciarsi alle spalle i trascorsi da primedonne per intraprendere una seconda parte di carriera all’insegna della sperimentazione. “Spirit of Eden” segna sia il punto di arrivo di una maturazione artistica di sorprendente spessore, sia il punto di partenza per lo sviluppo del filone ambient negli anni a venire. In particolare, il percorso di Hollis e soci si concentra sulla commistione tra molteplici influenze e svariate componenti, situandosi al crocevia tra la musica ambientale, l’art-rock, il dream-pop e l’avantgarde, seppure nella sua più morbida ed accessibile interpretazione. “Spirit of Eden” raccoglie sei lunghe composizioni free-form legate tra loro come in un’unica suite, in bilico tra sonorità sfuggenti e suggestioni minimaliste, arricchite dal canto sgraziato ed inconfondibile di Hollis e dall’apporto – mai invadente, addirittura a tratti quasi invisibile – di un ensemble assai nutrito di musicisti di qualità (sedici elementi più un coro); è musica complessa che riesce nell’ardua impresa di risultare accessibile nonostante le molte sfaccettature di cui è composta, producendo un effetto di trance estatica tanto gradevole quanto rilassante. L’iniziale “The rainbow” dispensa in otto minuti un caleidoscopio di variazioni infinitesimali su una struttura sottilmente cangiante, che si apre con un tappeto di rumori ambientali, prosegue con una languida cadenza chitarristica blueseggiante tra la “Riders on the storm” doorsiana e il Peter Green di “In the skies” e si riadagia su un finale per organo, armonica e pianoforte, prima di sfumare nei sette carezzevoli minuti di “Eden”, dal mood notturno e jazzato. Il brano si allarga subdolo in un orecchiabile, meditato crescendo subito ricacciato indietro da un nuovo rallentamento e da una reprise del tema, che viene continuamente accennato, contrappuntato da un inserto di tromba e chitarra elettrica, ma mai concluso; il terzo movimento, ossia i sette minuti della successiva “Desire”, esita su una esile cadenza dilaniata da due feroci dilatazioni soniche che saturano il brano creando un ingorgo esplosivo, prima della zoppicante “Inheritance”, propulsa da drumming jazz, intermezzo dissonante quasi cameristico e tastiere psichedeliche. E’ la stessa psichedelia dilatata che dilaga nei sei minuti di “I believe in you”, melodiosa aria appena scalfita dai riverberi di chitarra e da piccoli rumori stratificati in sottofondo, con un coro conclusivo che prepara il terreno al finale sospeso di “Wealth”, in un’atmosfera intima e raccolta – quasi uno spiritual – impreziosita da un organo melanconicamente evocativo che si dissolve timido come nebbia mattutina. Disco segnato da un’emotività continuamente trattenuta e rilasciata, sebbene in forme non convenzionali, avulse dall’espressività frontale del rock così come dalla fresca immediatezza del pop; col senno di poi, un album che ha indicato la via ad un genere musicale esplorato in svariate forme nell’arco del decennio successivo. (Manuel Maverna)