ZEN CIRCUS "Nati per subire"
(2011 )
Gli Zen Circus, originari di Pisa, rappresentano da qualche anno una nuova interessante realtà nel panorama indie (o sedicente tale) italiano. Forti di un approccio scanzonato e di una sferzante propensione all’ironia, trainati dal piglio espressivo di Andrea Appino che gigioneggia in uno sgraziato, beffardo registro vocale oscillante tra disgusto e raggiro, questo trio di ragazzacci propone una propria personale (re)interpretazione di una pop-music di rado assurta ad un rango preminente nel Bel Paese. Intendiamoci, è (forse) pop per esclusione, perchè questo non è rock: non ne possiede nè la forza, nè la struttura, nè la scrittura, nè l’impeto. Non è folk: sebbene l’andamento dinoccolato ed i chitarroni che indulgono facilmente alla ballata siano predominanti, i temi trattati non riguardano mai l’amore nè l’invettiva populista in senso stretto; non è canzone d’autore, perchè troppo greve; in un certo senso, mutatis mutandis e limitando il parallelismo allo spirito iconoclasta, potrebbe trattarsi di una personale rivisitazione del verbo punk in salsa Violent Femmes (ripuliti dalla follia psicotica), o al più di una bizzarra commistione di canzonetta all’italiana ed apolide pop-music chitarristica, da qualche parte tra Yo Yo Mundi, Gang e Rino Gaetano. Da un punto di vista strettamente musicale le composizioni sono esili, strutturalmente molto semplici, canzoni da falò in spiaggia avviluppate attorno ad un unico giro (la cantilena ciclica e annoiata della scheletrica “La democrazia semplicemente non funziona” – che ricorda qualche frammento di Manuel Agnelli - il groove indovinato di “Atto secondo” e la fiacca, non indispensabile “Cattivo pagatore” in chiusura ruotano attorno al testo e a quattro accordi) e solo lievemente arricchite – o meglio sgrezzate - da qualche sovrapposizione negli arrangiamenti e da rarissimi contrappunti. In pratica, è musica leggera resa dura da testi politicamente scorretti (emblematico quello dell’anthem ateista della nirvaniana “L’amorale”) e da un taglio sottoproletario delle liriche stesse: la denuncia del dislivello sociale avviene indirettamente per il tramite di piccole storie ignobili, alcune esplicite (bellissima l’opener “Nel paese che sembra una scarpa”, canzone a suo modo perfetta per costruzione ed incastri, e non male la title-track, che inizia a ritmo sostenuto per afflosciarsi subito dopo in una ballata comunque azzeccata), altre nascoste sotto racconti di sventura e amarezza (la superflua “Franco” o il triste crescendo della toccante “Il mattino ha l’oro in bocca”), altre ancora in bilico tra serio e faceto. E sembra proprio quest’ultimo uno tra i principali limiti dei tre baldi giovani: resta un mistero se mìrino a far sorridere, a far riflettere, o magari ad entrambe le cose, nessuna delle due riuscita al meglio. Avanti allora con il ritornello goliardico, tanto amaro quanto contagioso (anche se arriva troppo tardi, a metà del brano), della corale “I qualunquisti”, per proseguire con il quadretto sarcastico dell’inutile “Milanesi al mare” o con la strip surreale in stile Mano Negra dell’irresistibile “Ragazzo eroe”, sempre a metà strada tra divertissement e impegno (dis)simulato, ma quello che latita è l’affondo decisivo, la stoccata finale, il pezzo che sia davvero capace di spostare l’ago della bilancia trasformando un confusionario disco da baraccone in un’opera più organica. Rimane il secondo dubbio, vale a dire che questo sia non solo il meglio, ma anche il massimo che la band possa offrire, ed il massimo cui possa aspirare. Come il precedente “Andate tutti affanculo”, anche “Nati per subire” è un onesto disco di un discreto gruppo, al quale manca forse il classico centesimo per fare l’euro. Ma in tempi di crisi, anche 99 centesimi vanno bene. (Manuel Maverna)