recensioni dischi
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BONNIE 'PRINCE' BILLY  "I see a darkness"
   (1999 )

Quello di Will Oldham, figura di spicco nel variegato panorama del folk-rock d’oltreoceano, è un songwriting dimesso che lambisce l’indie-rock grazie ad un approccio volutamente ed insistentemente lo-fi; la voce sgraziata e tremante di Will arranca sbilenca e incerta, per metà incrinata da una sorta di pathos a stento trattenuto, per metà costretta dalle scarse doti tecniche a veicolare come riesce canzoni dal piglio moribondo. L’introspezione giunge a livelli maniacali, arrivando a permeare di sè l’intera opera, che rimane concisa, scarna, spettrale, lugubre fino dal layout della copertina; con invidiabile coerenza, la qualità sonora è perciò volutamente ridotta a poco più di un demo-tape, come a volersi spogliare di ogni superfluo orpello mantenendo una dimensione personale ed intima. Si direbbe musica confidenziale, ma Oldham va oltre la confidenzialità del canto: la sua è una spavalderia che l’ostentato, sciatto disinteresse per la forma maschera talmente bene da farla apparire un miraggio, mentre in realtà è l’aspetto che ne innerva le trame, solo in apparenza semplici. Ma è solo la spavalderia del condannato che compie l’estremo sforzo per celare il terrore dietro un falso sorriso; qui il patire è reale, un compassato deliquio di morte e desolazione prossimo a quello cantato da Vic Chesnutt, ma rinunciatario e mai autoironico, in un certo senso più fragile perchè meno disincantato e più irrinunciabile. Con la batteria ridotta ad un gingillo inservibile mixato sempre in secondo piano e forte dell’onnipresente uso di coretti che assomigliano a deliri ubriachi più che a cori strutturati per sorreggere i brani (il palpitante finale in crescendo di “Nomadic reverie” ne è fulgido esempio), Will pennella undici schizzi di smarrimento e desolazione, dalla fanciullesca lullaby di “A minor place” al valzerotto scomposto di “Another day full of dread” per spazzole, piano e basso minimale, con un breve solo di chitarra slabbrata; dal controtempo malato di “Death to everyone”, inno alla morte, al sesso ed all’infinita vanità del tutto che agonizza al limite della stonatura in un baratro esistenziale con una chitarra wah-wah e l’ennesimo coretto nonsense ad accrescerne la sinistra tensione, al reggae truccato di “Madeleine-Mary” (che ricorda i primi Police); ed ancora dallo stomp campagnolo di “Today I was an evil one”, in cui tutti gli strumenti suonano slegati e goffi, al rallentamento jazzato di “Song for the new breed”. E’ un crooning zoppicante, quaranta minuti asfittici che grondano un malessere tanto viscerale quanto insopprimibile, quello dispensato a piene mani nella dolente litania per sola voce e chitarra di “Black”, e soprattutto quello che sommerge la confessione intimista della title-track (ne esiste una cover del grande Johnny Cash, ma nemmeno il Mito giunge alle vette di Oldham che l’ha partorita), che canta di sconfitta, rimpianto, rassegnazione, accettazione fatalista di un destino ineluttabile, ad un passo dal nulla. (Manuel Maverna)