recensioni dischi
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PET SHOP BOYS   "Electric"
   (2013 )

A volte succede questo. Insoddisfazione reciproca, tra artisti e fans, per quanto avvenuto di recente (un disco, “Elysium”, che aveva lasciato un po’ di amaro in bocca per l’eccesso di lentezza e malinconia, e per la totale assenza di promozione da parte della Parlophone, storica casa discografica del due), e reazione immediata. Ovvero, nuova etichetta, nuovo disco dopo nemmeno un anno dal precedente, produzione di Stuart Price – già ottimo riesumatore di altri soggetti, vedi Madonna – e sound che, insomma, proprio malinconico non è. “Electric” è, esattamente, ciò che i tifosi dei PSB volevano dai due ragazzotti da almeno 20 anni: bmp a palla, mischiati con i soliti testi ironici e mai banali, senza nessun cedimento o ripresa di fiato. Ma attenzione: qui non si tratta della solita operazione nostalgia che a volte succede (e anche bene, vedi i Duran Duran di “All you need is now” o di Sandra in “Stay in touch”) quando c’è da risvegliare vecchi leoni del pop, e nemmeno il cercare di inseguire le mode recenti, altra cosa che a volte succede (e nemmeno bene, vedi i Duran Duran di “Red carpet massacre”, o la Sandra di “Back to life”). Questo disco dei PSB, per intenderci, non sarebbe mai potuto uscire del 1987, perché è roba del 2013, punto e basta, e non è nemmeno il disperato tentativo di capire, da parte del maturo, ciò che è il mondo attuale. Insomma, è un disco dei PSB del 2013 ed è un disco dei PSB dei 2013, senza se e senza ma, perché il dna lo si capisce già dalla prima nota del lavoro. Nove tracce, tutte da sentire a volume alto, compresa la solita improbabile ma riuscita cover – qui “The last to die” di Springsteen – e la citazione russa tanto amata da Neil Tennant (“Bolshy”), in una declinazione moderna di ciò che sono i due soggetti al giorno d’oggi. Con i capelli bianchi, con l’età che ha superato quota 50, ma con una capacità di riaggiornarsi restando fedeli a loro stessi che nessuno altro ha, forse. Riuscendo a crescere di traccia in traccia, fino all’apoteosi di “Thursday” – con Chris Lowe a ripetere i giorni della settimana con la sua voce robotica mischiata a quella del rapper Example – e alla dichiarazione di intenti di “Vocal”, è il colpo di coda perfetto per chi, da quasi 30 anni, non è mai arretrato di un centimetro. In soldoni: se questo disco lo avessero fatto i Daft Punk, la gente avrebbe gridato al miracolo e le classifiche ne sarebbero state invase. Ma si tratta di una sigla ricollegata al vintage ‘80s e ‘90s, e mancano le ruffianerie che oggi piacciono tanto, e chissà cosa sarà. Però, se vi ci avvicinate, ne uscirete con le ossa felicemente rotte e l’adrenalina ad inondarvi. Non cosa da poco. (Enrico Faggiano)