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DURAN DURAN  "A diamond in the mind"
   (2012 )

Ventotto anni prima, un album dalla copertina blandamente blu con dentro nemmeno tanta roba (una decina di canzoni) suggellò, specie in Italia, un fanatismo tale per cui “Arena” – di questo parliamo – e i Duran Duran, che qui celebravano il loro tour, divenne una specie di reliquia. Tale per cui è difficile pensare che qualsiasi over 40, ai tempi, non ci si sia imbattuto: anche per sbaglio, anche sotto tortura, ma lo avrà sentito di certo.

Ventotto anni dopo, ecco la seconda puntata, con in mezzo roba di qualsiasi tipo, cadute, risalite, varie ed eventuali, fino al necessario tornare a mettere su disco testimonianze dei loro concerti. Sia chiaro, negli anni ’80 Simon Le Bon era bello, era cool, era attraente, ma non era di certo intonato: le stecche al Live Aid – dovute, pare, alla troppa stanchezza per via dei troppi impegni – fecero il giro del mondo, e come tanti gruppi dell’epoca non è che dal vivo dessero il massimo. Ma parlare di DD, nel 2012, in una formazione tutto sommato intatta (manca solo Andy, dei Fab Five dell’epoca), è un po’ come dimostrare che il tempo passa ma non passa, e che c’è speranza anche per chi, nel mondo musicale attuale, proprio non riesce ad installarsi.

“A diamond in the mind”, peraltro, è stitico così come lo era “Arena”, con 14 brani – ora che tra deluxe editions e altro si sarebbe potuto tranquillamente duplicarne la durata – e mancanze che sono sacrileghe. Perché un live dei DD senza “Save a prayer”, per intenderci, è una Santa Messa senza il Padre Nostro, e solo questo necessiterebbe un mandare indietro a Simon almeno uno di quei poster che, all’epoca, riviste come Tutto o Ciao 2001 copiosamente offrivano alle orde di fans affamate. Vabbè, si dirà, perché poi a chi sopravvive tutto è perdonato, soprattutto se le cose arrivano dopo un album, quello del 2011, in cui i Duran erano tornati musicalmente parlando indietro a “Rio”, per la felicità di chi non aveva accolto al massimo le svolte precedenti.

Malgrado l’assenza detta, questo è un buon Bignami per tutte le epoche della formazione, dall’esordiente “Planet Earth” fino all’ottima “Girl panic!”, passando dall’epica “Wild boys” a “Rio”, e (quasi) tutto ciò che li ha resi testimonial degli anni ’80. E, alla lunga, poterli appaiare a quell’età senza imbarazzi diventerà cosa buona e giusta, perché non è che in seguito ci sia stato poi di meglio, almeno nel mondo del pop senza fronzoli. (Enrico Faggiano)