recensioni dischi
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HANTURA  "Taranterra"
   (2011 )

Chiamano echi di sonorità lontane e profumi di terra bagnata: sono i nove brani di “Taranterra”, ultimo album degli Hantura, band petilina giunta oggi alla prima, vera prova di maturità. Un gruppo nato per gioco in paese nei primi anni Novanta e salito poi col tempo agli onori di palchi ben più lontani, che è arrivato nei negozi con il suo terzo disco a partire dal 20 luglio, anticipando la versione live già pronta a partire. Ovvia l’anteprima in piazza Filottete, a Petilia, dove venerdì 12 agosto le nuove canzoni verranno presentate ufficialmente in concerto. Interamente prodotto dagli Hantura, registrato tra Petilia e Casalecchio di Reno (BO) e distribuito dalla reggina Elca Sound, storica etichetta del maestro Otello Profazio, “Taranterra” arriva a quasi quattro anni dal precedente “Suddanima” e ne prosegue il percorso, terzo capitolo di una storia musicale che in un particolare sa essere unica. Già, perché le band e i musicisti popolari da sempre si distinguono in due categorie opponenti: quella dei ripropositori e quella degli innovatori. I primi, mirabili strumentisti e ricercatori, svolgono un prezioso lavoro di ricerca disseppellendo e riproponendo intatti i brani della musica tradizionale. I secondi, tirandosi dietro gli strali dei primi (ne subì le conseguenze persino Otello Profazio, che oggi, cinquant’anni dopo, viene annoverato tra i capisaldi), raccolgono il lavoro fatto dai ripropositori e ne attualizzano tempi e forme, con conseguenze a volte geniali e a volte catastrofiche. E qui s’intromette ''Taranterra'' a scombinare la distinzione: poiché gli Hantura, con calabra umiltà e andatura lenta (a passu mìerulu, c’a via è petrusa, si direbbe da queste parti) sono partiti dalla prima categoria per bussare alla seconda. Portandosi appresso quelle marche di purezza che ne fanno ancora un assodato gruppo di riproposizione storica. E apponendovi però quelle variatio che al terzo disco, grazie anche a dei fisiologici cambi d’organico (entrano il santaseverinese Domenico Ziparo con fisarmonica e tastiere e Francesco Comberiati alla chitarra e la mandola) ne fanno portavoci di una terza via di “tradizione modulata”. Qualche esempio? Impossibile riproporre nel 2011 l’ennesima versione di “Riturnella” o “Malarazza” (vent’anni fa non si sarebbe detta la stessa cosa), non fosse stato per alcune piacevoli e inattese note di trombone (lo suona il bravo Domenico Amato, a conferma di quanto Roccabernarda sia ancora un’oasi benedetta di musicisti ineffabili) e l’inserto di una dolce chitarra spagnola. Ma soprattutto la tradizionalissima “Ciucciu bellu”: non avrebbe suscitato l’orticaria ai più, senza l’apporto dei fiati e l’assenza – spiazzante - di quel raglio così atteso (e forse odiato) da chiunque conosca il brano? Sta proprio in questi accorgimenti il piccolo scarto d’orgoglio del progetto Hantura. Che sembra fermo eppur si muove, dando voce a quel necessario equilibrio tra la necessità di tradizione e una crescente voglia di originalità che ha il suo picco nella rielaborazione di “Sira mia”, brano della tradizione forse meno noto, a cui i musicisti petilini spalancano le finestre, alla ricerca di nuove arie melodiche. In quest’ultima, come in “Malarazza”, si fa notare la voce di Raffaella Caruso, ormai piacevole conferma del gruppo, al paio di una rodata sezione ritmica composta da Fulvio Ierardi, Francesco Sisca e Franco Grano, e della coppia vocale e artistica dei fratelli Gino e Mario Carvelli. Il cui mix è ormai roba assodata: lievi accenni deandreani, linee melodiche sempre riconoscibili e un solido senso di appartenenza culturale, che dal Marchesato si apre timido a nuovi mondi. Consapevole della propria origine (racchiusa in brani inequivocabili come “C’era na vota”, in cui inedito appare l’italiano; in “Chijaga d’amuri”, la cui musica è un dono di Renato Caruso, e ancora nella title-track “Taranterra”, seconda prova di scrittura per Raffaella Caruso). A conforto di una nota ormai consueta: ogni disco degli Hantura richiama sempre il live. E alla fine la gente ballerà. (Simone Arminio)