BOY GEORGE "Ordinary alien"
(2011 )
Andare ad ispezionare la carriera solista di Boy George è un po’ come trovarsi di fronte ad una casa in rovina, dove si possono scoprire gemme qua e là, assolutamente coperte da macerie e altri disastri autoprodotti. Se per i capitoli precedenti vi rimandiamo alle recensioni degli altri lavori più o meno riconosciuti di Giorgino, la fine del primo decennio del terzo millennio è stata per lui roba faticosa, da mandare avanti. Suoi siti internet che continuavano a sfornare remix di canzoni o presunte tali, vicende di gossip che lo volevano un po’ in galera e un po’ no, serate da dj qua e là. E nessuna capacità, nessuna capacità, di dar continuità alla propria carriera o anche solo di tenere accesa la luce su quanto fatto con i Culture Club, in previsione dell’ennesima reunion (per il trentennale di “Do you really want to hurt me”, pare, perché come dice George “per il quarantennale forse sarebbe ridicolo”). Quindi, trovarsi di fronte ad un album ufficiale è quasi una anomalia, un cercar di normalizzare quello che normale non è, e difficilmente il Ragazzo riuscirà a recuperar classifiche a questo lavoro. Che è per nostalgici, e la cosa forse non sarebbe nemmeno male, se la macchina del tempo avesse lavorato bene: fosse un revival anni ’80, avrebbe potuto richiamare quei fans della prima ora, quelli delle treccine e dei cilindri. Qui, invece, il calendario si è fermato alla fine degli anni ’90, per un sound che sembra uscito dalle discoteche dell’epoca. Epoca nella quale, sia chiaro, George era già fuori moda da un decennio, e che quindi non lo può vedere come testimonial, se vogliamo, del periodo. Roba buona per i sottofondi dei discopub, o per le discoteche in attesa della apertura ufficiale, ma non certo per palati, diciamo, non avvezzi alle luci stroboscopiche. Eppure la fune era stata mandata, perché “Turn to dust”, ouverture del lavoro, è il classico reggaettino che, in altre epoche, aveva permesso a George di scoprire – o riscoprire – il gusto del successo. Invece, si preferisce restare nel manierista, nei locali, senza cercare in nessun modo di farsi irradiare altrove. Almeno, non si raggiungono gli eccessi del precedente “Yum Yum”, e l’ascolto del disco può essere provato da tutti, però resta l’atroce dubbio di una ennesima occasione persa per provare a tornare nel mainstream. Allora, l’appello che viene lanciato è lo stesso, come da 15 anni a questa parte (appello che, se vogliamo, può essere allargato anche alla nostra Loredana Bertè, che dello stesso virus soffre): possibile che non esista nessun autore o produttore capace di riportare alla ragione un cavallo di talento ma imbizzarrito? (Enrico Faggiano)