recensioni dischi
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NEW ORDER  "Republic"
   (1993 )

Icone della musica inglese che sparano "Republic" come titolo, anche se il riferimento era alla California, e che arrivano ad un certo apice commerciale prima di chiudere i battenti, almeno per otto anni. Ce n'era di che starci attenti, anche perché "Regret" era stata ben accolta da un po' tutti. L'album è di quelli che piacque, anche se ormai chi aveva amato la prima parte della loro carriera aveva cambiato, inevitabilmente, strada. Perché sembrava aver perso per strada qualsiasi asperità rock, affidandosi ad un suono che era di certo più accattivante per l'ascoltatore distratto ("Ruined in a day" sembrava esattamente girare in questa direzione), e che fece centro nei gusti di chi aveva iniziato ad apprezzare la band, diciamo, da "True faith" in poi. Resta un certo senso di incompiutezza, forse, o di faciloneria evitabile qua e là, ma anche qui serve fare un lavoro di cesello mentale, piano piano, per accorgersi che dietro certi ruffiani riff elettronici c'è comunque la voglia di non essere proprio oggetti da "Top of the pops", e che alla fine le concessioni al mainstream erano davvero poche. Specie in una metà degli anni '90 dove l'aria era cambiata, dove se non si era grunge o rap si faceva poca strada: loro provavano a ricollegarsi ai suoni del decennio precedente, senza però cadere nella nostalgia e nell'immobilismo di qualche altro compagno. E, se i Depeche Mode in quegli stessi giorni rileggevano l'elettropop con i canoni delle chitarre distorte, loro provavano a farlo cercando di unire le tastiere ad una certa malinconia britannica che, ad esempio, aveva fatto il successo degli Smiths (da cui, non a caso, Johnny Marr si era distaccato anche per unirsi a Bernard Sumner nel progetto "Electronic"). Il problema era però semplice: una volta selezionati all'entrata gli ingressi di chi rimaneva fedele ai New Order, le nuove leve avevano altro a cui pensare, e loro finirono nel fuori moda senza meritarselo. (Enrico Faggiano)