recensioni dischi
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NEW ORDER  "Technique"
   (1989 )

Quando uscì, ci fu chi si strappò i capelli inorridito. Che già non ce l'aveva fatta, a sopportare la versione dance di chi un tempo era stato il paladino di un certo dark, e che poi si era riversato all'elettronica. Certo, non era elettronica facile facile, ma si sa come funziona, in certi ambiti: o sei duro e puro, o meglio che non ci si incontri più.

"Technique" fu la quadratura del cerchio, da parte di chi era rimasto, appunto, a Ian Curtis e soci, dato che la spugna sembrava definitivamente gettata. Eppure, sarebbe bastato essere un po' meno talebani per accorgersi che Bernard Sumner e soci stavano dando una loro versione dei suoni dell'epoca - una acid house bianca - declinati alle esigenze di quelli che potevano essere i rimasugli della new wave degli inizi.

Non certo commerciali, dato che ad esempio quasi mai le canzoni avevano un ritornello che potesse essere riconducibile al titolo, non tristi, non allegri (citofonare "Vanishing point"), in quella terra di mezzo che faticava ad essere apprezzata sia, appunto, dai Crisantemi di inizio carriera che, magari, da chi si andava ad impasticcare di Ecstasy nella fine degli '80s.

Poi, ascoltando piano piano, senza pregiudizi, ci si accorgeva che qui, appunto, c'era il punto di incrocio delle due strade. Qualcosa che sarebbe poi diventato, in un certo senso, la moda britannica dei primi anni '90, trasformato in una nuova psichedelia acid-techno-rock con tanti al seguito: loro ci stavano arrivando, piano piano, con successi commerciali accolti con la solita freddezza.

Da assaggiare, magari senza farselo andare di traverso (come fece John Denver, che notò fin troppa somiglianza tra la loro "Run" e la sua "Leaving on a jet plane"), ma dall'iniziale "Fine time" al lungo assolo strumentale della conclusiva "Dream attack", se vi ci avvicinate con buon spirito, ci rimarrete invischiati, mosche dentro il miele. (Enrico Faggiano)