recensioni dischi
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YAMO  "Time pie"
   (1997 )

Il disco che la stessa etichetta discografica volle suicidare. Rewind. Alla fine degli anni ’80, i due “operai” dei Kraftwerk, Karl Bartos e Wolfgang Flur, decisero di andarsene, stanchi del fatto che i “capi” (Ralf Hutter e Florian Schneider) preferissero la bicicletta alla musica. Anni di silenzio, poi Flur mandò alle stampe una autobiografia, “Io ero un robot”, che non venne presa benissimo, diciamo. Scritta in modo quasi elementare, era la storia di chi poteva essere definito il “Ringo Starr” dei Kraftwerk, quello che era salito su un carro rivelatosi vincente, senza però mai sentirsi davvero apprezzato. Pagine di aneddoti, di risentimenti personali – guardate la sostanza e non la forma, dato che il soggetto proprio uno scrittore non è, ecco – che portarono i superstiti Kraftwerk alle querele e alla richiesta di non far uscire il libro , almeno in Germania. Libro che poi è una gigantesca marchetta per l’opera solista di Flur (oltre 10 anni dopo l’ultimo “Electric cafe”, evidentemente nemmeno lui era poi così produttivo), a nome “Yamo”, che per motivi comprensibili i piani alti della discografia cercarono di affossare, per evitare che l’opposizione ai Kraftwerk diventasse forte. Il disco, dal canto suo, è una piacevole forma di elettronica annacquata dal robotismo – c’è qualche campionamento che è facilmente riconducibile all’albero da cui cadde la mela – e diluita con un po’ più di romanticismo, tanto che i critici dell’epoca parlarono di “robot innamorati” o cose del genere. Una specie di dichiarazione “peace and love”, tanto per restare in tema beatlesiano, fatto però con meno sitar e più sintetizzatori, che si fa gustare ma che forse diventa alquanto noioso, se non siete particolarmente amanti del genere o se comunque preferivate le follie di “Man machine”. Perché alla fine è un disco come tanti altri, mentre – Flur se ne faccia una ragione – la particolarità dei Kraftwerk era proprio, appunto, l’essere assolutamente particolare. Così è, anche se forse non gli pare. (Enrico Faggiano)