MIKE OLDFIELD "Tubular bells III"
(1998 )
Il sunto di tutte le crisi esistenziali di Michelino sta qui. Nel disco che in teoria doveva festeggiare il 25nnale dall’originale, anche se ormai di celebrazioni e anniversari ce ne erano stati pure troppi – e altri ne sarebbero arrivati – e il rischio di fare la parte di quello che non aveva altro modo per stare a galla era forte. Il problema era che avevano ragione tutti: i critici, che lo accusavano di non volersi emancipare, ma anche lui, dato che questo disco (pur il meno venduto tra le tre campane) è, ad oggi, l’ultimo ad essere salito nella Top5 britannica, cosa che non era riuscita ai precedenti “Voyager” e “Songs of distant Earth”. Alla lunga, “TB3” divide, nei giudizi. Perché, paragonato ai due precedenti (sì, anche il secondo), perde di gran lunga. Ma non per squalificarlo: è che non c’entra proprio niente con gli altri. A meno che non si immagini Oldfield, nel suo bueno retiro di Ibiza, portare le sue campane al Pacha, e uscirne fuori con sonorità quasi techno a sostituire quelle spettrali originali. TB3 è un sunto delle tante anime di Oldfield, quelle alla ricerca di musica strumentale anche folk con coralità da sfondo, quelle alla ricerca dei cieli (“Far above the clouds”, unico momento in cui le campane si sentono, insieme a campionamenti dall’antico “Ommadawn”) e quelle alla ricerca di continui ammodernamenti, come appunto le drum machines che aprono il tutto. E, tanto per non farsi mancare niente, c’è anche un estemporaneo ritorno alla forma-canzone, con una “Man in the rain” che clona, voce di Maggie Reilly a parte, l’antica “Moonlight shadow”. Fosse uscita nel 1984, subito dopo il boom dell’ombra lunare, avrebbe venduto miliardi, nel 1998 venne vista solo come una capatina indietro nel passato. Il mondo rimase perplesso: il disco era anche apprezzabile, ma il battezzarlo in quel modo sembrava proprio alzare bandiera bianca. Si sarebbe potuto mettere a fare del liscio, del reggae o del grunge, ma se non li chiamava “Tubular bells” nessuno li avrebbe considerati. E se li chiamava “Tubular bells”, si sarebbe preso pietre in faccia. Povero. (Enrico Faggiano)