recensioni dischi
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MIKE OLDFIELD  "Tubular bells II"
   (1992 )

In quegli anni, persa per strada l’inerzia del successo di “Moonlight shadow” e della sua fase più commerciale, Michelino nostro si trovò sulle pagine dei giornali più per il suo clamoroso divorzio che altro. Attenzione, non di sentimenti si parla (anche se a fine ‘90s fece scalpore un suo annuncio “musicista cerca moglie”), ma della rottura con Richard Branson e, quindi, con la Virgin. Sia chiaro, lo strappar contratti discografici era normale, ma ricordando come la Virgin stessa, vent’anni prima, fosse nata quasi esclusivamente per permettere al ventenne Oldfield di registrare “Tubular bells”, la cosa non passò inosservata. Anche perché lui non le mandava a dire: gli insulti a Branson tramite codice Morse durante “Amarok”, e il “fuck off” con cui si chiudeva “Heaven’s open”, ultimo disco stampato, più per forza che per amore (e che comprendeva svariati altri accenni alla cosa), con Branson. I motivi dell’odio? Semplice: Branson voleva cose che avessero successo, o la famosa rivisitazione delle campane tubolari, unico modo – nemmeno a torto – di rendere appetibili al grande pubblico le lunghe sinfonie strumentali del Nostro. Che, quasi per dispetto, mise mano al progetto appena accasatosi con la Warner. “TB2” uscì per festeggiare il ventennale dall’originale, ed è pressochè lo stesso prodotto risuonato, riammodernato. Magari senza avere la spettrale atmosfera di quello del 1973 (che poi tanto del suo successo lo doveva, più che all’aver fatto da colonna sonora ai contorcimenti di Linda Blair ne “L’esorcista”, al fatto di essere qualcosa di totalmente innovativo, anche nel panorama progressive dell’epoca), ma con una rispolverata agli strumenti che ebbe successo. Il disco rimandò Oldfield in testa alle classifiche inglesi (non gli capitava da “Hergest ridge” del 1974), e lanciò nei top 10 “Sentinel”, il singolo che riassumeva la parte iniziale dell’opera, quel pezzo strumentale divenuto ormai il principale marchio di fabbrica del musicista. Che ringalluzzito da cotanto successo capì che la strada delle lunghe opere di sola musica era quella che voleva seguire, lasciando da parte la voce, i testi e tutto il resto. Bene ma non benissimo: i ‘90s lo avrebbero visto provarci in vari modi, con la critica sempre pronta a bastonarlo. Se si allontanava dalle campane, gli chiedevano di non esagerare e restare nel suo campo; se tornava a scampanare, lo si accusava di banalità e monotonia. Dura, la vita. (Enrico Faggiano)