recensioni dischi
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BOY GEORGE  "Boyfriend"
   (1989 )

Non sapeva nemmeno lui che pesci pigliare. Il virus dell'acid house lo aveva colpito ben bene, iniziandolo a quella carriera da dj che gli permette, oggi, di non dover vivere di sovvenzioni statali; però, da soffice icona pop che era stato, ai tempi di "Do you really" eccetera, si stava trasformando in qualcosa di più settoriale. E, forse, era anche cambiato il panorama: non bastava più essere strani, come agli inizi del decennio, ma serviva anche qualcosa di diverso - e non in quel senso. Lui, poi, musicalmente parlando, non è che avesse le idee chiarissime: solo 4 mesi prima era uscito con un album di ballate raffinate, a tratti in stile caraibico, e ora si dedicava, anima e corpo, alla discoteca. Evitava eccessi acidi e rap - cosa non scontata all'epoca - vivendo, invece, di quell'hi-nrg che sembrava, a tratti, una versione edulcorata di quell'altra roba che faceva degli smilini e simile la propria bandiera. Come impasticcarsi con delle Zigulì, potevano dire gli obiettori, e per questo non è che le discoteche ne andarono poi matte: le radio irradiarono "Don't take my mand on a trip" - peraltro nemmeno una cosa così sguaiata - più per rispetto di quello che era stato Giorgino, che non per reale convinzione, ma attorno ci fu poco altro. I ritmi si alzavano eccome ("Girlfriend", ad esempio), e qua e là George ricordava come l'Italia fosse un paese dove ancora qualcuno lo seguiva ("Big dark man", con inserto di fanciulla orgasmante in italiano). Ma le scelte dei singoli furono scellerate ("Whether they like it or not", quella che lui stesso avrebbe poi definito "la mia roba più ignobile"), e il mercato rimase spiazzato da questo lavoro di sole 8 canzoni - una delle quali quella "No clause 28" che, urlante di rabbia contro la Thatcher, aveva fatto scalpore l'estate precedente - che arrivava quasi in appendice ad un ben più corposo, e forse brodoso, album precedente. Insomma: i critici lo bocciarono clamorosamente ("Tsk, vuole fare della house, che è un genere già fuori moda", dissero). La verità è che era un prodotto troppo ibrido, non abbastanza acido per gli impasticcati - che invece adorarono "Everything starts with an E", della sua pupilla E-Zee Posse - e ormai troppo lontano dal mainstream. Brutta fazenda, tanto che l'album sarebbe poi stato ridotto a mera appendice del precedente, in una nuova versione ("High hat") che ne faceva il sunto. (Enrico Faggiano)