TEARS FOR FEARS "Everybody loves a happy ending"
(2004 )
Azzurra malinconia, cantava Cutugno. Sarà la nostalgia, miagolava Sandro Giacobbe. Nostalgia canaglia, muggivano Albano e Romina. O forse la mancanza di denari, o fate voi. Fatto sta che i due divorziati di lusso del pop britannico, Roland Orzabal e Curt Smith, tornarono a parlarsi. Un pissipissibaobao, un “ma le rughe che ti sono cresciute?” accostato ad un “sì, e quella stempiata?”, poi l’idea di rimettersi a far musica insieme. Certo, chi nasce tondo non muore quadro, e i problemi coniugali rimasero, al punto da ritardare l’uscita di un annunciatissimo disco-reunion per quasi due anni. Mentre le nuove tecnologie (insomma, il download) avevano reso disponibile l’album per tutti, i due continuarono ad avere problemi, e forse alla fine gli unici fans dei Tears For Fears a non avere in casa il nuovo CD erano proprio loro. Il titolo era di buon auspicio, il nuovo singolo “Closest thing to heaven” venne accolto anche con interesse, ma il cd sul mercato proprio non usciva, se non in rare edizioni d’importazione, a prezzi sinceramente meritevoli di una ADSL, di un clic su Emule, eccetera. Poi, alla fine, tutto tornò a posto: il disco venne pubblicato, e fece gridare al miracolo della reunion. Dei Beatles, però: per esser bello era bello, peccato che in troppe, troppe tracce (a partire dalla titletrack), ci fosse un forte senso di deja-ecouté, se così si può dire. La sveglia iniziale sembrava quella di “A day in the life”, e tutto andava in questa direzione. Com’è come non è, il disco non ebbe slanci particolari nelle top ten, anche se tra una canzone e l’altra (“Call me mellow”, ad esempio), Roland tornava ad essere se stesso senza inseguire i fantasmi di John Lennon: ci pensavano già gli Oasis, a far questo. Avrebbero dovuto fare come i Duran Duran: urlare al mondo che si erano riuniti, passare per la pubblicità di qualche compagnia telefonica, e il gioco sarebbe stato fatto. Sarà per la prossima volta? (Enrico Faggiano)
