recensioni dischi
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PARTENOS PETRAS  "De anarchia obscurorum seculorum"
   (2006 )

I Partenos Petras (originariamente nome di un dipinto famoso di Leonardo da Vinci) vengono da Caserta, e invece di pensare a sole, mare e mozzarelle (fateci sfoggiare un po' di luoghi comuni, dai...), trovano molto più gusto nel fare rock. Rock duro, durissimo, heavy metal. Di più, black metal (o, in alcuni brani, death metal), il lato più oscuro della musica, al punto che a questo genere sono spesso associate tematiche come satanismo, nichilismo, anti-cristianesimo e nazismo. Sinceramente ignoriamo se anche i fratelli Zannone (Zeder e Silas) ed Othis Martino abbiano queste idee o seguano queste tematiche (lasciateci sperare di no...): qui si tratta di musica, e di quello parleremo. Il concept album "De Anarchia Obscurorum Seculorum" si distingue innanzitutto per una certa varietà di soluzioni adottate: cosa che, a parere di chi scrive, è già un piccolo passo in avanti rispetto alle sacre tavole del genere che i ragazzi hanno abbracciato. Che, l'avrete già capito, non è esattamente al top nelle preferenze musicali di chi scrive. Nati dalle ceneri dei Lord Milos, che all'epoca ebbero due demo all'attivo, i 3 giovanotti (a cui si aggiungono dal vivo Karnage Tranchedone e Blusta Simonetti) si distinguono, soprattutto nel leader Zeder, per un notevole lavoro extra-musicale: di ricerca, cioè, di tematiche storiche legate al medioevo ed alle sue tante sfaccettature, spesso terribili. L'“Intro” già chiarisce a cosa andremo incontro nell'ascolto di questo album: suoni sinistri, campane e cori gregoriani, che sfociano nella durissima “Dominus Et Deus” che, però, nella seconda parte rallenta un attimo, dando giusta vetrina alla chitarra solista di Othis. Le seguenti “So Dark The Con of Man” e “Usus Et Abusus” mostrano qualche piccola apertura: entrambe si distinguono per una seconda parte più "potabile", in "Usus..." addirittura caratterizzata da un inedito ma centrato minuetto finale. “Terrorist Metal” rappresenta, in verità, un passo indietro, mentre l'intro di “The End Of Monotheist” lascia decisamente a bocca aperta: bouzouki, chitarre acustiche, violoncello e violino ingentiliscono un pezzo poi durissimo. Peccato, perché, se si fosse proseguito sulle idee iniziali, stavolta avrebbero potuto mostrarsi interessate anche orecchie solitamente use a ben altri generi. In conclusione, un disco duro ma, a suo modo, ricercato, e ben registrato (la bellezza di 150 giorni di sala di registrazione sono un piccolo record, per un gruppo italiano autoprodotto): un disco, soprattutto, che dopo diversi ascolti potrebbe vincere pure alcuni dubbiosi. Anche se, comunque, sole, mare e mozzarelle non sono così male, in fondo... (Andrea Rossi)