THE CURE "Disintegration"
(1989 )
Qui lo scrivente dovrà essere preso con le molle, perchè si rapporta a questo disco così come Emilio Fede si rapporta a Lui, e magari un giorno – scusate se scrivo con una mano sola, l’altra scende sotto il tavolo – vorrà essere sepolto con questo album in mano. Buttati via gli esagerati panni dell’icona dark, Robert Smith aveva trovato una sua collocazione commerciale di tutto rispetto, con le “Close to me” e le “Why can’t I be you” a spalancargli le porte delle classifiche, oltre ad allargare le masse che lo seguivano live. Magari facendo storcere il naso a chi era nato a pane e “The funeral party”, ma tant’è. Quando venne annunciato questo disco, definito come “un ritorno alle sonorità cupe degli inizi”, i nuovi fans attratti dalle melodie di “Just like heaven” ebbero un moto di paura, temendo di trovarsi di fronte ad un prodotto difficile da masticare. Vennero smentiti. Se c’è un disco che riesce ad essere compatto ma non noioso, monolitico ma non ripetitivo, ipnotico e comunque di facile ascolto, melodico ma incazzato, insomma, totale, questo è. A partire dall’assurda “Lullaby”, un lento vortice che di ninnananna ha ben poco, visto come il protagonista venga infin sbranato da un gigantesco ragno. Senza un ritornello, con una voce sussurrata al punto da chiedersi se Robert Smith non fosse andato a ripetizioni da Viola Valentino, ma clamorosamente impossibile da non amare. In questo album c’è l’amore di “Love song” e la morte di “Disintegration”, la rabbia di “Fascination street” e la nostalgia di “Homesick”. Mise d’accordo i fans di “Pornography” e quelli di “Kiss me kiss me kiss me”, toccando la perfezione. 70 minuti da godersi in totale concentrazione, senza distrarsi, che fanno arrivare alla fine del disco con la più classica sindrome di Stendhal. Cosa dite? Esagerato? “Non dite che non v’era stato detto”… (Enrico Faggiano)