recensioni dischi
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TERENCE TRENT D'ARBY  "Introducing the hardline according to Terence Trent D'Arby"
   (1987 )

Se non sono matti non li vogliamo. Mulatto, con lunghi treccioloni (se fosse apparso pochi mesi dopo, forse lo avrebbero messo nei Milli Vanilli), con una biografia da chiedersi cosa avesse bevuto il relatore. Figlio di un militare, pugile tedesco, vai te a sapere quale fosse la verità. Ma su una cosa non potevano esserci dubbi: ci sapeva fare. Alla ricerca del nuovo James Brown, saltò fuori lui, con le sue danze, i suoi piedi che si muovevano come quelli di mr. Sex Machine, e un disco tutto da sentire, possibilmente senza stare mai fermi, se non quando TTD tirava il collo del suo cuore e si lanciava in lenti come la celeberrima “Sign your name”. Da “Wishing well” a “Dance little sister” in poi, una carriolata di singoli che fece gridare al miracolo. Durò poco, ahinoi. Il Nostro iniziò a incidere sotto vari nomi, ritardando o rendendo complicato il seguirne le tracce. E i successivi usciti come TTD non ebbero lo stesso risalto: incidendo “Neither fish nor flesh”, ovverò “né carne né pesce”, poco ci mancava nel sentire Elio e Le Storie Tese, sotto, fare il coro “la mia angoscia non decresce”. E nemmeno l’angoscia del Nostro, che sarebbe riapparso sulle scene con il nome indiano di Sananda Maitreya, manco fosse uno dei ragazzi del professor Keating ne “L’attimo fuggente”. Che lui non seppe cogliere. (Enrico Faggiano)