NEW YORK DOLLS "New York Dolls"
(1973 )
Nati nel 1971, in un’attivissima America artistica, si costituiscono i New York Dolls, un gruppo estremo, sia nelle musiche sia nel look, che sarebbe stato capace di scrivere una pagina importante nel grande libro dell’enciclopedia della musica.
Ancor oggi attivi (reunion nel 2004, sponsorizzata da Morrisey, ex cantante degli Smiths), devono tuttavia la loro fortuna e la loro indiscussa fama all’esordio, targato 1973. Se riletto oggi, quel “New York Dolls” appare, infatti, come un album anticipatore di più correnti musicali: punk, rockabilly, ecc, ma ciò che più sorprende è la sua incredibile attualità, non avendo perso neppure un briciolo dell’antico vigore.
Più di qualsiasi altra cosa “New York Dolls” appare come un album punk (tre/quattro anni prima della sua esplosione, in terra inglese). Questa affermazione risulta ancora più evidente facendo scorrere le tracce dell’album: in altri termini, suona esattamente come un perfetto album punk che, ancora oggi, qualsiasi band di ragazzini con le creste colorate sognerebbe di realizzare.
Non è, tuttavia, un vero e proprio album punk (seppur ante litteram, s’intende), in quanto era diversa l’attitudine delle “bambole” rispetto ai ribelli anarchici che dai Damned e dai Sex Pistols sconvolsero il mondo musicale e non, verso la fine degli anni settanta. Ancora oggi David Johansen disconosce di essere stato un proto/punk, rivendicando unicamente la sua natura di Rock'n'roller, nato per fare musica da ballare e da divertire (un concetto, quindi, poco punk).
Nei modi, invece, il gruppo (composto da musicisti travestiti da donne di facili costumi) riprende il glam rock, tanto in voga i quegli anni (David Bowie, Lou Reed, Peter Gabriel, ecc), mentre il frontman riprende molte delle espressioni e dei modi di fare dei suoi idoli Rolling Stones (vedere la somiglianza con Mick Jagger).
La copertina parte subito bene, anzi benissimo. Le cinque dolls sono sedute su di un divano bianco ed appaiono come cinque meretrici dopo una lunga ed estenuante nottata di lavoro. Il titolo dell’album rimane impresso in un colore viola shocking, come se fosse stato scritto con un rossetto “coraggioso” (che, di fatto, compare nella copertina). E’ talmente esilarante il contesto che non è proprio possibile resistere al suo fascino e diventa praticamente improbabile restare impassibili.
Uscito per la Mercury e prodotto da Todd Rundgren, “New York Dolls” viene concepito, nella formazione originale, da David Johansen (voce armonica e gong), Johnny Thunders (chitarre e voce), Sylvain Sylvain (chitarre, piano e voce), Arthur Harold Kane (basso) e Jerry Nolan (batteria), prima che una serie di sfortunati episodi decimasse parte dei sopraccitati musicisti.
Qualche nota di piano introduce la voce di David che, insieme alle chitarre di Sylvain e Thunders, ci fa sentire un rock grezzo e sporco, ma irresistibile. "Personality crisis" è il pezzo da novanta dei New York Dolls; posto in apertura è la migliore presentazione possibile.
Le bambole sono abili a cercare un bacio con “Looking for a kiss” che, pur mantenendo le coordinate sonore del brano d’apertura, sembra più maturo e blueseggiante, mentre “Vietnamese baby” è particolarmente incisiva nella sessione ritmica. “Lonely planet baby” è acustica e dolce (come può essere dolce una band come i New York Dolls!) ed appare come quel brano che chiude una serata di eccessi (sì, insomma, la quiete dopo la tempesta). All’interno delle dieci canzoni dell’album, questa traccia assume un’importanza notevole, sia in termini di equilibrio musicale, sia per lo spessore che la contraddistingue.
“Trash” apre il secondo lato dell’LP. Ed ecco che i New York Dolls ci dicono chi sono. Questo è un altro brano da dieci e lode; è punk con reminiscenze blues (impossibile non muovere il corpo). In “Bad girl” il blues è ancora più forte, in “Subway train” (rock'n'roll al 100%) le Dolls ci ricordano moltissimo i Rolling Stones, e in “Pills” è l’armonica di Johansen che apre le danze, mentre le chitarre di Sylvain e la batteria di Nolan sono protagoniste assolute. “Private world”, meno originale di altre, anticipa “Jet Boy” che, posta in coda, è ancora capace di brillare con un sound ed un giro di chitarra che ricorda la celebre “Johnny B. Goode” di Chuck Berry.
Dieci devastanti pezzi di R&R, trash e kitsch che hanno segnato la storia… e quando finisce l’ultimo brano, la cosa più naturale da fare è quella di rimettere la puntina sulla prima canzone; siamo pronti per iniziare nuovamente la festa. (Gianmario Mattacheo)