recensioni dischi
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ACE OF BASE  "Happy nation"
   (1993 )

Dura la vita dei discotecari, a inizio anni '90. C'era stato lo straripare della techno, del progressive, del bumbumbum, dei Gallineri e dell'acid rave. Se si era stati abituati ad un minimo di melodia, oltre ai bpm, si poteva solo tirar fuori i dischi di Sandy Marton e piangere. Poi, saltarono fuori loro. Doppio misto, come se dopo gli Abba dalla Svezia potessero uscir fuori solo quartetti di due maschietti e due femminucce, con due passioni: Bob Marley e i Kraftwerk, il reggae e l'elettronica. Non ci aveva ancora pensato nessuno: il reggae in discoteca ci andava anche, ma solo con le "Red red wine" e le "Could you be loved", e negli spazi revival. Il mix funzionò alla stragrande, e non solo "All that she wants" divenne un successo mondiale, ma il genere prese al punto di creare una sterminata serie di cloni, oltre a DJ che regghelettronicheggiavano qualsiasi cosa trovassero sottomano. Loro costruirono un ottimo album attorno a questa idea primordiale, anche se purtroppo i singoli scelti erano soltanto cloni del fratello maggiore. "Wheel of fortune", "The sign" (inserita poi nella ristampa americana), la title track che iniziava con coro latino. Si poteva bussare a "Munchhausen" per capire che i 4 sapevano fare altro. Chi voleva ballare, ma non si adeguava al trunk-trunk dell'epoca, aveva comunque trovato il jolly. Loro ci sguazzarono per qualche altro singolo, ma il vento girò presto, e già dal successivo "The bridge" le cose cambiarono. Ci sarebbe stata una cover di "Cruel summer", poi il silenzio. Ma sono ancora attivi, e aspettano soltanto che inizi, inesorabile, il revival degli anni '90. Sul pullman per la gloria postuma, accanto a loro, sono già seduti i Roxette: aspettate e vedrete. (Enrico Faggiano)