recensioni dischi
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IL TEATRO DEGLI ORRORI  "Dell'impero delle tenebre"
   (2007 )

Difficile trovare un'esatta definizione per il termine "supergruppo". In alcuni casi il termine è assolutamente preciso ed appropriato, dal momento che l'ensemble in questione è costituito dall'unione di vere e celebrate superstar, che hanno goduto di notevole risonanza anche in altre vesti (soliste o in complessi realmente famosi). Crosby, Stills, Nash & Young è l'esempio perfetto: ovvio che i quattro potessero fregiarsi di tale definizione senza che nessuno potesse opporre alcuna motivazione. Negli anni '80 arrivarono poi gli Asia (Geoff Downes e Steve Howe dagli Yes, John Wetton dai King Crimson e Carl Palmer dagli Emerson Lake and Palmer), mentre più di recente gli Audioslave (componenti provenienti da Soundgarden e Rage Against the Machine) hanno riportato in auge a ragion veduta, il termine "supergruppo". A volte, invece, il termine è assolutamente abusato, è inutile negarlo. Quando ci è capitato di sentire usata questa definizione, ad esempio, per il Trio Melody (Gigi Proietti, Peppino Di Capri e Stefano Palatresi), o per l'estemporaneo duo Bobby Solo & Little Tony, beh, senza mancare di rispetto a nessuno, a quel punto era logico che il termine fosse abusato, che avesse perso il vero significato iniziale. Non è tanto la quantità di dischi venduti ad essere presa in considerazione (in tal caso gli esempi di cui sopra potevano legittimamente aspirare al termine "supergruppo"), e nemmeno la qualità della proposta (che, si sa, è soggettiva), quanto piuttosto la "valenza", l'importanza dei singoli elementi nei rispettivi ensemble di provenienza o nei rispettivi generi musicali. E, soprattutto, se l'unione non fosse determinata dal caso (o dall'interesse economico), piuttosto che da un progetto vero, autentico, un pulsare irresistibile che spinge i protagonisti a cercarsi e ad unirsi. Se consideriamo quest'ultimo il vero "spartiacque", l'autentico fattore da prendere in considerazione per decidere se un'unione di vari musicisti possa o meno essere definita un "supergruppo", non c'è dubbio che il Teatro Degli Orrori, a tutti gli effetti, lo sia. I suoi componenti non hanno venduto milioni di copie nelle rispettive carriere svolte sino ad oggi, ma nel loro campo di provenienza sono, senz'ombra di dubbio, degli autentici numeri uno. Dei punti di riferimento. Pierpaolo Capovilla è il frontman storico di una delle realtà piu' importanti degli ultimi anni, ovvero i One Dimensional Man, gruppo dal quale proviene anche Francesco Valente: con loro c'è Gionata Mirai, voce e chitarra dei Super Elastic Bubble Plastic, altra band di culto, e Giulio Favero, che ha militato negli stessi One Dimensional Man e che oggi è tra i produttori più richiesti della scena indie. Insomma, se fermate per strada la massaia di Potenza o l'elettricista di Cantù, probabilmente i loro nomi risulteranno meno conosciuti di quelli di Little Tony o di Stefano Palatresi. Se però si contestualizza il mondo da cui i quattro provengono, il rock alternativo, ed al quale ancora una volta si rivolgono, questi strumentisti sono autentici riferimenti. Qui, poi, non c'è estemporaneità, non c'è casualità: qui c'è un autentico progetto, che approda anche dal vivo, per riscrivere i sacri testi e porre una pietra angolare per chi, da ora in poi, vorrà dire qualcosa nell'ambito di questo genere. Che è rock. Anzi, si tratta di un'opera rock, a tutti gli effetti. Con una novità (assoluta, per quanto riguarda il vocalist Pierpaolo Capovilla): qui si canta (e si parla) in italiano. Scelta, questa, per nulla facile: "L'italiano ti priva dei vantaggi che ti da' lo scrivere in inglese - spiega lo stesso Capovilla - la sintesi va ricercata con grande cura in ogni singola parola". Quindi il lavoro non è stato per nulla facile: non a caso il disco ha avuto una gestazione lunga, durata all'incirca due anni, dei quali uno speso per la composizione e la pre-produzione dei brani, a cui vanno aggiunte le session di registrazione, caratterizzate da un'attenzione maniacale per ogni singolo particolare. Non è, forse, questa, musica facile: versi declamati, prima ancora che cantati, strofe quasi recitate, interpretate in modo teatrale (opera rock, si diceva), per un ascolto forzatamente non distratto ma che, come tutte le cose non esattamente immediate, una volta "passate", una volta che impregnano il cervello dell'ascoltatore, non ti mollano più. In certi brani (la titletrack, innanzitutto) riecheggia la potente figura di Demetrio Stratos, qua e là spuntano poi citazioni colte, da Shakespeare a De Gregori, da Carmelo Bene a De Andrè. Un imponente e centrato calderone, nel quale perdersi per lunghi, lunghissimi ascolti. Non è, insomma, musica da fast food, questa. E perché dovrebbe esserlo? (Andrea Rossi)