NICK CAVE & THE BAD SEEDS "Let love in"
(1994 )
Per un grande artista parlare di quale possa essere il suo album migliore non è certo compito agevole. Per Nick Cave il discorso non cambia e, anzi, sotto certi aspetti il discorso si complica ulteriormente (se si considera la mole di lavoro prodotta nel corso della lunga carriera). Tuttavia, quello del 1994 potrebbe, a ragione, essere considerato come la massima espressione musicale dell’australiano e dei suoi inseparabili Bad Seeds. Con “Let love in” Nick Cave continua il suo stato di grazia che lo aveva portato a pubblicare, solo due anni prima, “Henry’s dream” e che, sempre sulla stessa falsariga, avrebbe regalato l’ottimo “Murder ballads” (1996), a conclusione, appunto, di un periodo di grande creatività vissuto con musicale ispirazione. La copertina è tutta per lui. Su uno sfondo rossastro il nudo mezzobusto del cantante sembra evocare immagini di sofferenza e dolore, mentre la sua figura non può non farci venire in mente, per somiglianza, il primo padre del tormento, Mr Iggy Pop. Il basso di Martin P. Casey ed il suono di una campana aprono il lavoro ed il primo grande dubbio di Nick Cave: “Do you love me?”. Non ci sono dubbi, invece, su come si voglia porre l’australiano. Si sente (e probabilmente è) il predicatore nero che intende portare la ragione nell’ascoltatore. La voce è profonda ed intensa mentre esegue uno dei brani che lo rappresentano al meglio e, contrariamente ad un canto soave, il suo assomiglia più ad un rimprovero rivolto a chiunque abbia la (s)fortuna di incrociarlo. Dopo il primo sfogo la rabbia sembra essersi temporaneamente chetata e si passa con “Nobody’s baby now” ad un brano di pura dolcezza, nel quale il predicatore Cave diventa confessore, pronto a rassicurare ogni più inquieto spettatore. La terza e la quarta traccia, invece, riportano il rumore e l’ossessione. “Loverman” parte bugiardamente lenta per accendersi improvvisamente con la voce invasata di Cave e le chitarre di Mick Harvey e di Blixa Bargeld, mentre “Jangling Jack” pare quella canzone scritta a tavolino per essere volutamente casinara e rumorista. Con “Red right hand” si ascolta, invece, una delle canzoni più significative dell’intero repertorio caveiano. L’ideale di predicatore oscuro e dei bassifondi viene quasi estremizzato, mentre si racconta di loschi personaggi che gravitano nella notte di una metropoli qualsiasi. È facile immaginare vicoli bui e sporchi raggiri, architettati da una potente mano insanguinata. Le campane diventano persistenti (quasi a scandire il passaggio della notte) e Cave profetizza mentre in sottofondo si possono udire anche le sirene della polizia. La song che dà il titolo all’album vede in evidenza il piano di Conway Savage che, addirittura, mette in seconda fila le chitarre dei fidati Mick Harvey e Blixa Bargeld (quest’ultimo anche leader degli Einsturzende Neubaten, band industrial tedesca, attiva già dai primi anni ottanta). “Thisty dog” (sicuramente non trascendentale) prosegue il clima sonoro di “Let love in” anche se in un contesto più collettivo. Gli strumenti si accavallano e si scontrano, quasi in una lotta per emergere, mentre la voce di Nick Cave funge da giudice inappellabile. Con l’ottava traccia ritorna il clima soffuso alla “Nobody’s baby now”, ma meno sereno e luminoso. Si canta e si suona la desolazione, mentre i Bad Seeds sono maestri nell’accompagnare il loro capo in un brano scarno, essenziale ed acustico. “Lay me low”, brano enfatico e dall’altissimo contenuto alcolico in cui spiccano l’organo di Cave e i cori gospel dei Bad Seeds, anticipa la conclusiva “Do you love me? (part II)”. Il motivo musicale è, come facile immaginare, il medesimo del brano d’apertura. Qui, però, i tempi sono rallentati e non c’è più l’irruenza di prima, ormai spentasi durante le nove canzoni di “Let love in”. Quello che rimane è il mesto sfogo di un uomo che non chiede più “Do you love me?”, ma che con profonda tristezza si pone una domanda retorica. Più che altrove si percepisce il senso della fine; il senso di non appartenere a questo e quel luogo (“Questa città è un orco accovacciato… Dona la vita, ma se la porta via”) e, in mezzo a tutta questa desolazione, quell’orco di un australiano trova la forza per chiederle ancora “Ma mi ami?, mi ami?”. (Gianmario Mattacheo & Silvia Campese)