recensioni dischi
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THE EX  "If your mirror breaks"
   (2025 )

Basterebbero i primi trenta secondi dell’opener “Beat beat drums” per cristallizzare e sublimare il post-punk in una sua spuria concezione: non sai cosa aspettarti e niente va per il verso giusto.

C’è un persistente senso di fastidio, c’è fracasso, ci sono decine e decine di spigoli invisibili e immaginari pronti a ferirti, c’è qualcosa in perenne agguato nella semioscurità di una musica sofferta, agonizzante, truce a tratti, mai conciliante.

Insomma: una meraviglia, tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

The Ex, storica band olandese, sono un’istituzione a livello mondiale, gente in giro dal 1979, così per dire. Nel tempo, la line-up è cambiata, ma lo spirito è rimasto identico: indomito, arrembante e feroce quanto basta ad alimentare il culto. E la loro musica, strapazzata e martirizzata, va caparbia in direzione ostinata e contraria, a ricacciare indietro l’idea stessa di una fruibilità continuamente cancellata dall’impietoso, assiduo, costante martellamento che la mette in discussione.

Che poi, a dirla tutta, da sempre The Ex forzano e travalicano il concetto stesso di post-punk, elevando a canone un caos paradossalmente controllato. Se già il post-punk è musica di rottura, The Ex rompono anche la rottura: elementi di free-jazz, no-wave, impro-noise si innestano sul cadavere ampiamente martoriato di un rock già ucciso e sepolto, delineando un tessuto sonoro sfregiato, degradato, frantumato.

Queste le doverose premesse: per non fare notte, dello statuario, ingombrante, memorabile passato nemmeno parliamo, ripartendo invece da “If your mirror breaks”, su etichetta Ex Records, album ufficiale numero quindici in carriera, o giù di lì. Tre quarti della band risalgono agli esordi, anche se dei fondatori è rimasto il solo Terrie Hessels: G.W. Sok si è dedicato ad altro da quindici anni abbondanti, al suo posto un degnissimo Arnold de Boer regge da tre dischi – questo compreso - le parti vocali come meglio non si poteva sperare. Completano il quartetto la batterista Katherina Bornefeld – dietro le pelli dal 1984 - ed il chitarrista Andy Moor, in pista dal 1990. Nota di servizio a beneficio dei nuovi adepti: The Ex suonano oggi con tre chitarre e nessun basso (l’ultimo lavoro col basso vero e proprio fu “Dizzy Spells” del 2001, mentre in “Turn” del 2004 figurava la contrabbassista Rozemarie Heggen), strumentazione che conferisce alla loro musica già satura e congesta un taglio ancora più minaccioso e stridente.

L’accoppiata che apre l’album – la già citata “Beat beat drums” e la soffocante “Monday song” - è l’ideale introduzione a questo santuario di rumore assortito, ritmi sghembi e scrittura non lineare, un pastiche ubriacante e sbilenco nel quale non esistono strofe, ritornelli, bridge, code, intermezzi: è un blocco monolitico sorretto da una sezione ritmica che puntella le fondamenta del tempio a forza di bordate assassine e incastri vagamente imparentati con certo math-rock.

Figure insistite ed elettricità disturbatissima definiscono il canovaccio, sul quale la band dilaga come uno tsunami: “The evidence”, con staccati di chitarra a singhiozzo, è un boogie straziato à la Cramps; “Spider and fly” è un fosco rallentamento percussivo à la Killing Joke, con spoken word su marasma di distorsioni e nemmeno uno stramaledetto straccio di armonia; “Circuit breaker” parte ingannevolmente melodiosa, salvo deragliare in un nervoso crescendo in controtempo.

Il clima è plumbeo, le acque agitate, nessuna requie concessa: non siamo neppure a metà del disco.

Avanti, dunque: “Wheel” è una buia cavalcata à la Disappears con Katherina alla voce, un cupo registro di note basse a dettare la linea e – udite udite – un accenno di chorus; “The loss” è ruvida e abrasiva, memore degli Stranglers; “In the rain” vorrebbe assomigliare ad una canzone, ma va alla deriva in una bolla di frastuono, con corollario di canto parossistico e sovraesposto; i sei minuti incalzanti di “The apartment block” sono un trionfo di dinamiche che collassa in un climax violento e molesto degno dei Mono.

E siccome è la fine la più importante, a chiudere ci pensa “Great!”, affogata in un sabba di dissonanze, muraglia di suono bucata dai contrappunti falsamente gioiosi delle chitarre, preludio al gaudente bailamme a passo baggy che si mangia l’outro riportando tutto a casa. Senza risolvere il rebus, neanche stavolta. (Manuel Maverna)