recensioni dischi
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PINK FLOYD  "Animals"
   (1977 )

Nel ’77 scoppiava il Punk e i Pink Floyd, uno dei gruppi più odiati dai punk, facevano uscire un disco che, nonostante fosse composto in gran parte da brani di qualche anno precedenti, non si discostava molto dalle intenzioni del Punk. ”Animals” è nichilismo, pessimismo, è punk camuffato da rock lussuoso. In quegli anni i Floyd si erano ormai allontanati dalla Psichedelia, come si erano allontanati dal Progressive. Con “The Dark Side Of The Moon” avevano praticamente trovato la loro via, un rock fluttuante e ammaliante, incapace di incantare e di sbalordire. I quattro sapevano colpire l’ascoltatore con le loro trovate melodiche di gran classe e potevano andare avanti all’infinito senza mai stancare. Così fu per questo disco. La struttura è praticamente identica a “Wish You Were Here”, i suoni sono quanto meno riconoscibili e le melodie come sempre impeccabili. Si potrebbe parlare di monotonia, di scarsa fantasia, e in parte è così. Ma c’è qualcosa che rende “Animals” diverso dagli altri lavori di quel periodo. Il riff che scaturisce tutto a un tratto dalle tastiere dolci di “Pigs (3 Different Ones)” è mosso da una veemenza diversa, una voglia di immediatezza che si mescola poi con i toni alternati del canto. Un brano particolarmente spoglio e minimalista, il gruppo si affida alla chitarra rauca e a sonorità sottili, quasi intangibili, che vanno poi a fondersi con grida filtrate e suoni robotici. Va detto che è una canzone abbastanza estenuante, le variazioni sono minime e la musica si ripete troppo a lungo. Certo, il gruppo è maestro nel dipingere affreschi dai colori levigati e sempre simili tra loro. Restano comunque sonorità originali per il gruppo, non più ammalianti, ma in un certo senso deprimenti, sconfortanti, ci troviamo davanti alla messa in musica del verso di Time “Quiet Desperation”, una lunga spirale che non porta a niente. Le tre lunghe canzoni centrali sono contornate dalle due parti di “Pigs On The Wings”, un brano abbastanza insignificante, di certo non brutto, ma come molti altri nella carriera del gruppo, caratterizzato però dai testi gelidi di Waters, in puro stile Punk. Le chitarre acustiche di “Dogs” ci introducono nel girone degli arrampicatori sociali; la secchezza della canzone la discosta dal repertorio solito del gruppo. Tutto sembra molto più distaccato; siamo all’antitesi del lavoro del ’75, che era sentimentalismo puro. I cambi di registro successivi non cambiano l’umore del pezzo, sempre permeato da un’aura di decadentismo e desolazione (aiutata dall’abbaiare dei cani). La derive elettrica di Gilmour, seppur gradevole, non colpisce più come un tempo. Sono le parole a colpire, a ferire. La musica si dimostra più di una volta fin troppo formale e senza anima. Nonostante questi lati negativi, il disco rimane molto peculiare e difficile da definire. È come una rivisitazione dei Pink Floyd fatta da Nick Drake o da Tim Buckley. “Sheep” inizia forte, sempre nello stile del gruppo, ma con quella strafottenza cordiale che non si era mai vista prima. Non per niente, il ritmo si fa più sostenuto e i suoni più altisonanti. La voce si adegua benissimo ai ritmi e va a formare forse la canzone migliore del disco. Le pecore, il popolo che si sente al sicuro senza preoccuparsi di cosa facciano i potenti, sono i protagonisti di questo violento attacco, che assume spesso toni molto accessi, come quando dice “The Lord is my shepherd… He converteth me to lamb cutlets”. Ci pensa poi il riff di chitarra, per una volta efficace, a dare il tocco di grazia. In definitiva, “Animals” è un album trascurabile, godibile, ma non imprescindibile. Musicalmente non troviamo niente di nuovo, il gruppo punta di più sui ritmi, ma è un cambio di stile davvero impercettibile. Il pessimismo cosmico di Waters lo porta a creare questo concept che divide gli uomini in maiali, cane e pecore. Retorica? Pessimismo gratuito? Vedendo gli sviluppi del tour di Animals e delle produzioni dei Pink Floyd e del loro leader, non si direbbe. Piuttosto, questo disco sembra una riedizione pessimistica e punkeggiante di “Wish You Were Here”. Non è male, ma non vi cambierà la vita. (Fabio Busi)