recensioni dischi
   torna all'elenco


DEPORTIVO  "Reptile"
   (2025 )

Facile oggi vivere nell’era di Wikipedia, di Youtube, di Spotify, di Amazon.

Io i Deportivo ho iniziato a seguirli vent’anni fa, e solo perché facevano da spalla ai Louise Attaque, anche se non ricordo come venni a saperlo. I Louise Attaque sono quelli di “Comme on à dit”, chiaramente il disco più bello della storia della musica, ma su questo punto non mi dilungherò. Se vi va, ne trovate la recensione – diciamo la celebrazione – su queste stesse pagine.

Ora: era il 2005, i Louise Attaque erano in giro a promuovere il loro terzo album, “A plus tard crocodile” (se vi va, ne trovate la recensione – diciamo la celebrazione – su queste stesse pagine), e si facevano talvolta aprire i concerti dai Deportivo, tre ragazzotti del sobborgo parigino di Bois D’Arcy, tre amici fin da bambini, compagni di scuola e cose così.

A quel tempo, avevo due modi per approfondire la conoscenza della musica francese, la mia passione dell’età adulta: o mi procuravo qualcosa su e-Mule, oppure passavo ore ed ore ad ascoltare roba con le cuffione in una qualsiasi Fnac d’oltralpe, durante uno dei molti viaggi in Francia con mia moglie.

Trovai su e-Mule un brano dei Deportivo: era “La salade”, due minuti e poco più di canzone, ma bastarono a farmi innamorare. Rumore di quello malsano, una meraviglia. Una specie di indie-qualcosa, non punk, ma quasi, un’alternanza di carezze e pugnalate in centoquarantacinque secondi tesissimi, con abbondanza di tonalità minori. Se una canzone è zeppa di minori, mi va bene anche se la canta Gino Latilla, per dire.

Amazon non esisteva, quindi alla prima occasione comprai “Parmi eux”, album di esordio datato 2004, in una Fnac trovata pochi chilometri oltre il confine. Così, a scatola chiusa, sulla fiducia de “La salade” (guardai tra i brani: c’era). Fui ripagato da un album clamoroso, tutto sulla falsariga de “La salade”. Brani brevi, spinosi, chiassosi, immancabilmente in minore, due-tre minuti massimo. L’approccio era virulento, ma non aggressivo: vagamente disperato, piuttosto, come un’ennui rabbiosa mescolata a sentimenti degradati. Una pacchia.

Tre anni più tardi, sempre nel corso di una zingarata nei dintorni di Nizza, comprai il secondo album, che portava semplicemente il nome della band. Ecco: per lungo tempo lo considerai come il disco numero 2 nella classifica degli album più belli del mondo. Del numero 1 ho già detto. Il copione era il medesimo: dieci pezzi, tutti brevi, tutti tristi, quasi tutti rumorosi. Una meraviglia.

Poi, purtroppo, il giocattolo iniziò a dare qualche prevedibile segno di cedimento. Al terzo disco per la Barclay – sì, perché les garcons erano sotto contratto con una major fin dagli albori -, Gaetan Roussel dei Louise Attaque e il guru bowieano Mark Plati, già insieme per “A plus tard crocodile”, misero le mani sulla creatura, nel tentativo di sgrezzarla e di traghettarla verso altri lidi, rendendola più fruibile, più radiofonica, più appetibile per un pubblico che non fosse solo quello dei molti, fedelissimi, esagitati aficionados di sempre. Un pubblico che fosse – magari – quello dei Louise Attaque.

Bene, ma non benissimo. Era il 2011, sette anni dopo “Parmi eux”, ma soprattutto una distanza artistica già evidentissima rispetto a quella pietra miliare. Il rock abrasivo e pessimista cedeva il passo al pop-rock levigato di “Ivres et debutants”, che portava impresso a fuoco il marchio di fabbrica della premiata ditta Roussel/Samuel/Plati, tutti ben presenti a produrre, ad arrangiare, a suonare. Il giocattolo era finito in mani altrui, si era snaturato, aveva perso attrattiva, almeno un po’. Era fiacco. Aveva molte tastiere, anche troppe, e dal vivo la formazione a tre diventava a quattro con l’aggiunta di una seconda chitarra. Conteneva qualche grande pezzo, è vero, ma era il sound a suggerire una svolta che andava metabolizzata.

Due anni più tardi, abbandonata la Barclay e fondata la propria etichetta (la Titanic), riecco i ragazzi con “Domino”, una via di mezzo tra la perduta brutalità del passato e l’indesiderata morbidezza del presente: il disco ottiene buone critiche, la fanbase resiste impavida, ma storce il naso, forse delusa da un evidente calo di tensione e da un’ispirazione non più così urgente e granitica.

Jerome – voce, chitarra e mente pensante – vara una carriera solista col progetto Navarre, che partorirà un unico album nel 2016, poi costruisce con Robin Feix, bassista dei Louise Attaque, i Vertige, il cui solo disco vedrà la luce nel 2019: in entrambi i casi, il riscontro è appena discreto.

Poi. Poi accade che nel 2023 i Deportivo rinascano dalle proprie ceneri: Richard Magnac, storico bassista degli inizi, si chiama fuori dalla reunion, la formazione diventa un quintetto, con un nuovo bassista e l’aggiunta in pianta stabile di un tastierista. Della vecchia guardia, rimangono Jerome e il fedelissimo Julien alla batteria. Pubblicano in sordina un paio di pezzi nuovi (“Revolution Benco” e “Perdu!”), li buttano lì su Youtube, per vedere di nascosto l’effetto che fa. E l’effetto c’è, eccome. Fans vecchi e nuovi salutano la rentreé con stupore e ritrovato entusiasmo. Soprattutto, i pezzi graffiano come un tempo: aspri, rumorosi, istintivi. Sempre roba da due minuti e via, ma palesemente più centrata, più sentita, più vera. Svaniti gli eccessi pomposi, rimossi gli orpelli inservibili, la band sembra proficuamente regredire a quella ruvida essenzialità degli albori che ne aveva decretato l’affermazione. Ricominciano a farsi vedere in giro con una serie di concerti rigorosamente sold-out, tanta è l’emozione e la sorpresa di saperli ancora in buona forma.

E on stage reggono ancora bene la baracca: il pubblico risponde alla grande, l’entusiasmo rimonta, il giocattolo è di nuovo intatto. Aggiustato, riparato, un po’ invecchiato, ma va ancora benone.

E a fine febbraio del 2025 – udite udite – esce il nuovo album, a dodici anni da “Domino”, quando oramai nessuno se lo aspettava più. Finanziato col crowdfunding (bruciato nella metà del tempo necessario, raccolta una somma tripla rispetto alle richieste), “Reptile” torna largamente alle origini, ma non come operazione-nostalgia: è sinceramente sentito, appassionato, accorato. Sembra davvero materiale dei giorni d’oro.

Ora, i Deportivo fanno essenzialmente tre tipi di canzoni: ci sono quelle abrasive come carta vetrata, con le chitarre cattive e Jerome che va su con la voce e gli accordi minori (tipo 1); ci sono quelle un po’ goliardiche, un po’ francesi, un po’ così, con suoni bizzarri e Jerome che gigioneggia con la voce e gli accordi minori (tipo 2); e ci sono quelle morbidissime, intime, confidenziali, con la voce di Jerome che è un filo e gli accordi minori (tipo 3). Ecco, quelle morbidissime riescono ad essere al contempo tristi e amare, desolate e fataliste. Molto francesi. La durata di ogni singolo brano si aggira sempre intorno ai due minuti, perché a Jerome non piace tirarla per le lunghe.

In “Reptile” ci sono tutti e tre i tipi, offerti agli astanti con una freschezza ed una brillantezza che mancavano da una vita, tanto che oramai quasi nessuno ci sperava più.

Il primo brano nuovo che ho ascoltato è “J'aurais Dû T'en Parler”, che dura due minuti e trentuno secondi ed appartiene al tipo 3: l’ho rimandata da capo qualcosa come cinquanta volte di fila, per due ore consecutive non ho avuto altro nelle orecchie. Qualche giorno dopo, ho replicato con “Traînards”, due minuti e ventitré secondi, tipo 3, in repeat per un altro paio d’ore, ma forse anche di più. Mi sono fatto trascrivere il testo dal mio capo, che è francese, perché non lo trovavo in rete. E’ tristissimo, una meraviglia.

Poi ci sono canzoni di tipo 1 – la mia preferita è “Fiasco”, che va a mille all’ora – e di tipo 2 – “(L)ēgo”, con buffo coretto che stride col testo, come se un serial killer cantasse “Kiss me Licia”, per dire – e un sacco di altre cosette, trucchetti, scherzetti, tonnellate di elettricità indisciplinata e dispettosa come ai bei vecchi(ssimi) tempi.

Il pezzo più lungo è quello conclusivo, “Avide”, due minuti e trentasette secondi, tipo 2, francesissima nello stile, che pare una canzone suonata in strada da un tizio con la chitarrina e il cappello per le offerte dei passanti. E’ tristissima, una meraviglia.

Tutto l’album dura ventidue minuti e cinquantaquattro secondi, dentro ci sono più di vent’anni di vita, morte, rinascita e miracoli di una band che merita affetto incondizionato e cieca devozione. Due minuti alla volta. (Manuel Maverna)